Perché decidersi per una pastorale più missionaria

Il 22 e 23 gennaio, don Paolo Asolan ha incontrato il clero della Diocesi di Nola per due mattinate di aggiornamento

I presbiteri della diocesi di Nola hanno partecipato, il 22 e il 23 gennaio, a due mattinate di aggiornamento promosse dal vicario per la Formazione per il clero, monsignor Francesco Iannone. Ad accompagnare nella riflessione i sacerdoti è stato don Paolo Asolan, professore di Teologia pastorale fondamentale presso la Pontificia Università Gregoriana e preside del Pontificio Istituto pastorale Redemptor Hominis della Pontificia Università Lateranense. 

Il professore ha articolato i lavori proponendo una mattinata di confronto in gruppo - il 22 gennaio - prima di offrire la propria relazione ieri mattina. A tema l'importanza di decidersi per una pastorale più missionaria.

Scarica il testo della relazione di don Paolo Asolan

Per una pastorale più missionaria: la relazione offerta da don Paolo Asolan al clero della diocesi di Nola

«Le possibilità/novità in quel che dirò vengono dal campo proprio di quella disciplina che è la Teologia pastorale. I problemi che sono emersi ieri necessitano non solo di spiritualità e di scienze del management, ma di una competenza tutta particolare in quella materia che si chiama appunto Teologia pastorale. Una tale competenza è importante anche per evitare di ridurre la fede a un’ideologia e la pastorale a delle “cose” che bisogna fare. Non basta analizzare, descrivere i problemi pastorali; occorre chiedersi anche: come affrontare tutto questo? E come viverlo nella fede? Serve un metodo particolare, il quale necessita anche di strumenti che aiutino a cercare di capire che cosa il Signore ci chiede di fare qui e adesso. Mi permetto di invitarvi a coltivare questo campo. Come insegna il professor Keating ne L’attimo fuggente: «Qualunque cosa vi dicano, parole e idee possono cambiare il mondo». Occorre anche lo studio, l’utilizzo della ragione, dello studio, per sfuggire ai fanatismi, ai fondamentalismi, ai plagiatori, ai sofisti. Non sono un oracolo e non sono venuto certo qui a snocciolare ricette che dovrete infornare. Vorrei dire alcune cose che potrebbero essere pacificamente condivise, rispetto alle quali continuare il confronto tra di voi, lasciando che magari mettano radici o che soltanto incontrino la vostra simpatia», ha esordito il professore Paolo Asolan, intervenendo ieri mattina, in occasione della seconda giornata di aggiornamento per i presbiteri della diocesi di Nola.

Quattro gli spunti offerti dal preside dell'Istituto Redemptor Hominis.

Imparare un metodo di discernimento

«La prima cosa che vorrei condividere è la necessità di imparare a fare discernimento: ad agire, cioè, non per deduzione (dogmaticamente), né per induzione (empiricamente), ma “usando” la fede e il mistero di Cristo per illuminare i fenomeni complessi e contraddittori nei quali siamo tutti immersi; e rispetto ai quali la pastorale “solita” sembra essere di colpo diventata inutile. Che significa fare discernimento? Occorre fare molta attenzione a non ridurre anche le questioni di fede – sia di fede creduta (fides quae) che di fede vissuta (fides qua) – a degli slogan facili, taumaturgici, proclamando o facendo riferimento ai quali  quanto c’è di problematico nella nostra missione si risolve. Ad esempio, da qualche tempo “periferia” sembra una parola riassuntiva e taumaturgica al pari di altre del recente passato: “nuova evangelizzazione”, “catechesi missionaria”, o lo stesso “discernimento” dopo il convegno di Loreto. Una certa Teologia pastorale spesso cade in questo tranello, e soffre l’uso di un frasario a forte presa immaginativa e/o emotiva, di un linguaggio persino lirico fatto talora di giochi di parole, che tuttavia sembrano fatti per coprire un vuoto di analisi e di idee, quando non di fede. Basta infatti chiedere: “e quindi, concretamente, che si fa?” per ricavare, talora, soltanto del silenzio. Voglio dire che anche la realtà più sacra, il compito più grande che il Signore e lo Spirito Santo ci assegnano, possono diventare slogan che rinchiudono la chiesa nella sua autoreferenzialità, nel suo parlarsi addosso, nel gioco della moltiplicazione delle analisi che ha un effetto paralizzante sulla prassi ecclesiale. Se avete letto Evangelii gaudium vi sarete resi conto di come questo sia uno dei punti sui quali il Papa è stato particolarmente chiaro. Dobbiamo poter affrontare il tema delle periferie o della “uscita” della Chiesa o dei “discepoli missionari” o adesso della “sinodalità” non come un facile slogan, di rapida sostituzione, ma come una prospettiva di azione concreta e strutturante. Il compito che abbiamo davanti, il tempo di una nuova missione (il grande paradigma di Evangelii gaudium), l’occasione favorevole del ri-centraggio di quel che siamo e di quel che siamo chiamati a fare in prospettiva missionaria, è una grande grazia che dobbiamo stare attenti a non perdere. Questo può essere realmente un tempo di grazia, purché aderiamo al reale così come si dà», ha spiegato Asolan.

Discernere l’opera dello Spirito tra di noi

Per poi aggiungere: «Che cosa e come fare nei prossimi anni, in questo tempo di grazia che abbiamo davanti? Se la novità che è Dio va riconosciuta presente e all’opera nel mondo, perché Egli vuole far rinascere e ricondurre a Se l’umanità e il mondo, allora la questione – riformulata – diventa: occorre saper discernere che cosa fare e come fare. Con una contemporaneità del come e del che cosa, perché molto spesso la difficoltà nel pensare unitariamente la realtà è che sentiamo la necessità di isolare un corno del problema, un corno della realtà per capirla o affrontarla meglio. Perché, invece, è importante trattenere i due aspetti? Perché ci parleremmo addosso puntando soltanto al che cosa. Se la vita della chiesa è vita, allora si deve poter esprimere attraverso fatti, situazioni, persone, scelte, strumenti; cioè tutta la concretezza del come, nello spazio e nel tempo che Nola, la Campania, l’Italia del 2024… Il Signore ci incontra e ci salva manifestandosi attraverso le situazioni e le condizioni di vita in cui ci fa esistere. Questa è la strada buona che Lui ha pensato per noi: l’ha pensata e permessa perché ci ama. Anche nelle molte difficoltà che sperimentiamo, che talvolta assomigliano a delle morti. Vi siete mai chiesti perché Gesù aspetta che Lazzaro muoia prima di andare da lui? Eppure era suo amico. Ci sono delle morti che Gesù attende che succedano per farci risorgere, per manifestare la sua gloria, e le attende perché  è nostro amico, perché ci ama. Il discernimento è sempre in vista dell’azione, non si esaurisce in discorsi che siano soltanto teoria, sogni. Marx affermò: «La religione ha avuto diciotto secoli per cambiare le cose e non ha fatto niente». Il giudizio è duro, forse anche ingiusto, ma coglie un rischio tutt’altro che accuratamente scampato, ad esempio nei consigli pastorali o in quello che sopravvive degli organismi di partecipazione: limitarsi a parlare di valori assoluti, di orizzonti entro i quali il mondo della chiesa, la pastorale, appaiono dei doverismi ovvero una fiaba dove tutto funziona, ci si ama, tutto è semplice e quasi ovvio. Ci dobbiamo invece preoccupare di obiettivi concreti, di concrete prassi da modificare: con obiettivi meglio definiti sui quali convergere, potremo riconoscere un senso del passo fatto, della strada aperta, dell'obiettivo più o meno effettivamente raggiunto. Tutto questo fa parte del come, non basta il che cosa».

Ed ha continuato: «C’è anche un altro aspetto del come. Chi edifica la chiesa è lo Spirito Santo in noi e tra noi. Vi leggo cosa dice Sant’Agostino: "Per mezzo di ciò che è comune al Padre e al Figlio, hanno voluto che noi fossimo uniti tra di noi e con loro, e mediante questo dono raccoglierci nell’unità mediante l’unico dono che essi hanno in comune, per mezzo cioè dello Spirito Santo, Dio e dono di Dio. Per mezzo di Lui, infatti noi ci riconciliamo con Dio e godiamo di Lui". Questa azione che fa lo Spirito Santo: unirci tra noi – per cui giustamente possiamo affermare che la chiesa è una comunione – unendoci allo stesso tempo con la Trinità Santa, è innanzitutto una grazia, non soltanto da chiedere ma anche alla quale predisporsi, alla quale acconsentire, dire di sì. Lo Spirito è puro dono, non lo guadagniamo con le nostre analisi  o con le nostre progettazioni pastorali. E l’opera prima che Egli compie in noi è renderci partecipi della circolazione di vita e di amore che le Persone Divine si scambiano nell’amore. Nella Trinità Santa, insegna san Tommaso con un’espressione che è rimasta ineguagliabile, le relazioni tra le Persone sono sussistenti: la distinta Persona non è prima persona per poi donarsi al Padre o al Figlio: il Padre è Padre in quanto si dona al Figlio, in quanto è “per” (esse ad). In Dio vi è questa relazione di dono totale di sé che rende possibile e attua eternamente la gratuità, la libertà, la bellezza, la fecondità dell’amore. Cosa voglio dire? Questo carattere relazionale è decisivo anche nella chiesa se vogliamo che lo Spirito Santo agisca in noi e tra noi secondo la sua missione. Significa che ciò che conta innanzitutto nella chiesa è come noi stiamo insieme non meno che di quel che facciamo insieme: se l’azione pastorale non generasse comunione, ma generasse solo conflitti, rivalità, gelosie, noi non staremmo acconsentendo all’opera dello Spirito Santo. C’è da chiedersi se tanta infruttuosità della pastorale non sia dovuta a questo. Distribuiamo magari tante comunioni a Pasqua, abbiamo ancora tanti bambini da battezzare, ma non generiamo una relazione tra noi e queste persone… Dove va a finire quel dono? Quel seme che è stato il sacramento, quale spazio ha per svilupparsi, per crescere? Cosa dovremmo fare secondo me? Non solo dire cosa aggiungere o cosa togliere delle attività pastorali, e secondo quali priorità; ma come riconoscere e come assecondare questa azione dello Spirito Santo che genera comunione tra di noi e con Dio? Qui si insedia la questione del primato dello Spirito Santo. Il Papa ne parla spessissimo, direi quasi che è un mantra del suo Pontificato. Ma già Giovanni Paolo II aveva scritto nella Novo Millennio Ineunte che esiste un primato della grazia nell’azione pastorale. Molto spesso questo primato della grazia lo confondiamo con la preghiera che facciamo prima delle riunioni, recitata la quale magari ci scanniamo tra noi come se niente fosse. Ora, la presenza dello Spirito in quello che facciamo viene prima di quanto noi possiamo fare da noi stessi (il Papa ha coniato il neologismo primerear): non funziona che se c’è tutto è più bello, ma anche senza la sostanza non cambia. Se ha un primato quello che lo Spirito Santo fa, questa cosa è strutturante. Molto concretamente, questo significa – ad esempio - che i consigli pastorali non sono riunioni di condominio dove i laici devono lamentarsi perché non possono decidere nulla. Il consiglio pastorale è un ritiro spirituale dove si ascolta la parola del Signore, si cerca luce su determinate questioni di fondo e si cerca di capire ciascuno, personalmente prima poi comunitariamente qual è la volontà di Dio rispetto a quel problema, a quella situazione. Qual è l’orientamento che dobbiamo dare? E lo dobbiamo cercare e offrire nel Signore, perché vogliamo capire cosa Lui, alla luce della Scrittura e dell’Eucaristia, ci dà da conoscere nell’intimo dell’anima, nell’intimo della coscienza. Se non c’è questo, qualunque soluzione pratica offriamo ai nostri problemi pastorali, qualunque desiderio di passare da una pastorale di manutenzione a una di missione, avrà il fiato corto. Forse nell’immediato la pastorale di manutenzione vi darà dei risultati, ma alla lunga, proprio perché non è in realtà collaborazione con quello che lo Spirito Santo guida a fare, imploderà su di sé».

Decidersi per una pastorale più missionaria

Quindi la terza osservazione: «Evangelii gaudium  ri-centra la vita della chiesa in prospettiva missionaria. Che significa? Vorrei dire due cose: una molto generale, una molto più concreta.La prima. La missione è costitutiva della chiesa. Spesso è citato un passo del concilio dove si afferma che la chiesa è per sua natura missionaria. San Luca mostra attraverso l’unità letteraria esistente tra il terzo vangelo e gli Atti degli apostoli, come la missione di Paolo, dall’apertura ai Gentili fino all’arrivo a Roma, non sia che il prolungamento della missione di Gesù, che ora si compie nella chiesa attraverso l’opera dello Spirito Santo. Perché c’è la chiesa? Che scopo ha la chiesa? Ve lo siete mai chiesti? Perché dobbiamo affaticarci per la chiesa? La chiesa è il prolungamento della missione del Figlio, “quasi un sacramento”, dice il concilio, di un’azione che ha origine fin dalla creazione del mondo. Perché Dio non aveva bisogno del mondo, non aveva bisogno di noi, ma ha voluto averci e ci ha voluto per amore perché ci ama, perché è felice di noi, perché guardandoci ci benedice. Noi siamo stati creati da questo amore che ci ha amato fino a desiderare di farci figli in Gesù, nel suo Figlio e di essere ricondotti a quella pienezza di vita, che è la vita in Dio. La missione della chiesa è un’azione di Dio che ci precede. Paolo si è sentito dire: «Non temere perché io ho un popolo numeroso in quella città». Lo Spirito Santo agisce fuori dai limiti della chiesa e ne prepara la missione. Dunque la chiesa ha questo compito di ricondurre a Gesù ciò che lo Spirito Santo ha preparato e prepara nel cuore degli uomini. La missione non consiste nel faticosamente sforzarci per arrivare a un successo di noi stessi, ma nel compiere questo disegno, di sicuro successo, che il Padre ha rivelato in Gesù Cristo. In questo senso la gioia cristiana non è l’ottimismo umano. In certe verifiche pastorali mi è capitato di trovare la gioia tratteggiata con le caratteristiche dell’ottimismo della volontà. Ma la gioia non è l’ottimismo della volontà: è l’accordo nel profondo tra ciò che siamo, ciò che facciamo, ciò che è la volontà di Dio e ciò che lo Spirito Santo sta facendo adesso. Questa gioia che è vedere il Signore, direbbe san Giovanni, cioè riconoscerlo in noi, è possibile anche nelle prove, nelle sofferenze, nelle devastazioni. Anche quando una persona vive periodi duri, drammatici, tenebrosi della vita, e tuttavia è visitato dal Signore con un anticipo di gioia, di fiducia che rischiara quel buio. Nella predica per la canonizzazione di santa Faustina il papa Giovanni Paolo II disse che questa parola - “Gesù confido in te” - è come un lampo che può squarciare il buio. “Gesù confido in te”: ora vedo solo questo buio ma io confido in te, questo oltre che tu sei che è più forte di quanto io posso fare da me stesso. Non è l’ottimismo, non è la fiducia nelle nostre possibilità che ci governa e che ci fa andare avanti, ma la speranza della gioia, la certezza che il Signore è al lavoro per questo. Questa è la missione che da sempre la chiesa ha avuto e sempre ha testimoniato, anche nei periodi più brutti e rognosi della sua vita. Sempre ci sono stati santi che hanno irradiato questa gioia, che hanno reso possibile una novità di vita sulle fiacchezze, sulle miserie e sugli interessi dei sacerdoti e vescovi indegni che c’erano.
Seconda cosa riguardante la missione. Questa missione oggi appropriatamente è chiamata (o, almeno, io continuo a chiamarla) Nuova evangelizzazione. Che significa nuova evangelizzazione? Significa che per la prima volta la chiesa nei paesi di antica cristianità (l’Italia, l’Europa, e per certi versi anche il nord dell’America e l’Australia) si vive questa situazione: il vangelo va annunciato a una cultura che ha già conosciuto il vangelo e ha scelto di poterne fare a meno, esculturandolo. Questa è la novità della sfida che implica una novità nell’evangelizzazione. Non c’era mai stata prima una missione del genere. Quando i missionari di “prima evangelizzazione” arrivavano, trovavano sempre altre culture, diverse, nelle quali inculturare il vangelo, come appunto una novità che veniva a incontrare contesti e culture nuove. Ora, per la prima volta, l’evangelizzazione è un compito che riguarda paesi e culture che hanno conosciuto il vangelo e hanno scelto di farne a meno. Davanti a questa sfida – del tutto nuova, ripeto – noi non dobbiamo soltanto adattare quello che abbiamo sempre fatto, aggiornare quello che abbiamo sempre fatto, o aggiungere attività nuove a quelle tradizionali: si tratta di trovare e favorire vie per una nuova inculturazione del vangelo. Non si tratta di una prima evangelizzazione, perché i riferimenti culturali, quanto meno cristiani, non sono del tutto assenti in questa nostra società; ma non si tratta neppure di una società dove vige la cristianità e tutto è ricondotto a unità dalla fede cristiana. Si tratta di non offrire più soltanto quei servizi religiosi che una società a marcatura sacrale richiedeva al prete, ma di vivere un “discepolato missionario”: una appartenenza a Cristo e alla sua novità di vita (discepolato) in un contesto dove non si può più dare per scontata la fede (missionario), ma con questa particolarità di essere un contesto che ha già conosciuto il cristianesimo. Nell’affrontare questa sfida bisogna avere molta pazienza, per non strappare il grano buono dalla zizzania, perché è una situazione veramente ambigua, dove è difficile capire che cosa deve essere mantenuto e che cosa deve essere riformato. Avrete letto come il Papa in certi punti dell’esortazione Evangelii Gaudium ci spinga quasi ad avere il coraggio di rivedere fino in fondo che cosa va nella direzione di questa evangelizzazione nuova e cosa no. Avere questa pazienza significherà non avere letture manichee della situazione: non è neppure vero che non ci sono più i cristiani e tutti adesso di colpo sono pagani. Questa cosa, ad esempio, nei santuari (mariani e non: penso a Santiago) non si vede. Le letture manichee inclinano e diventano passività, quel tipo di atteggiamento che fa dire: «Visto che non interessa a nessuno, visto che i ragazzi non vengono allora non facciamo niente. Ci sediamo e non sappiamo che cosa fare, gestiamo la cura fallimentare dell’impresa. Vendiamo le Chiese, riduciamo le Messe… tiriamo al minimo sindacale». Se uno non ha dentro il fuoco dello Spirito Santo, la coscienza che questo è un tempo di  grazia soprattutto per noi – perché andiamo alla radice della missione, al punto nel quale lo Spirito agisce in noi – anche questa sfida che di per se è affascinante noi la perdiamo. Stringi stringi, in che cosa consiste questa sfida? Nel rimettere l’energia, la forza dello Spirito Santo, la vita dello Spirito Santo che è la vita della Trinità santa che passa a noi attraverso l’Eucaristia, dentro la vita della gente. Si tratta di far vedere cosa Dio centra con il mondo. Il mondo che stiamo vivendo, e che è l’esito ultimo dei processi innescati dalla (post)modernità, cioè dal vivere etsi Deus non daretur – come se Dio non esistesse».

Il guado da superare

«Credo - ha aggiunto ancora il preside Asolan - che questo sia il punto con il quale riconciliarsi, in un certo senso il guado in mezzo al quale ci troviamo - ha concluso don Paolo Asolan - Mi spiego: i cristiani veramente convinti, tutti d’un pezzo, completamente compromessi con il vangelo e con la fede/speranza/carità sono sempre stati una minoranza. Se voi leggete le lettere di certi santi, scritte in periodi che noi reputiamo di piena cristianità (in epoche, cioè, nelle quali tutti erano cristiani, battezzati, governati da altrettanti cristiani che emanavano leggi ispirata all’antropologia cristiana…), sorprendentemente trovate il loro disappunto per la poca fede della gente, per la trascuratezza dei sacramenti e della Messa che vedevano intorno a loro, per la tiepidezza che avevano verso la vita della Chiesa i loro contemporanei. Sempre i “discepoli missionari” sono stati una minoranza. Quel che c’era di diverso era il quadro sociale, valoriale, antropologico che faceva da supporto a quelle società: era un contesto chiaramente evangelizzato (il matrimonio era l’unione di un uomo e di una donna, i figli si procreavano con un atto coniugale, il lavoro era per tutti e non solo per gli schiavi, l’essere umano contava più di un animale…), che rendeva sensata e orientata ad un destino buono la vita di tutti. Era una fede diventata popolo, vita di un popolo, che aveva prodotto anche una pietà popolare, fattasi cultura. È questo contesto che è saltato, questa “popolarità”della fede che è venuta meno e che rende anacronistica la vecchia pastorale, pensata e strutturata per una società che ancora andava d’accordo con il vangelo, che voleva decisamente lasciarsi ispirare da Gesù Cristo. Nella quale la parrocchia poteva limitarsi a celebrare e a preparare i sacramenti. Adesso è il fondamento stesso che manca – ovvero l’evangelizzazione. Non dobbiamo perciò pretendere di restaurare una cristianità (tutti in chiesa, tutti che votano secondo la Dottrina sociale della Chiesa…) che probabilmente non è mai esistita come coincidenza perfetta tra società e Chiesa. Ma dobbiamo poter evangelizzare: offrire alla nostra gente la possibilità di vedere e di scegliere una vita cristianamente discepola del Signore, perché è davvero una vita migliore, nella quale lo Spirito Santo ci trasforma in una maniera altrimenti umanamente impensabile ed impossibile. Questa ricostruzione di un contesto cristiano della vita di un popolo è – come si intuisce – la missione propria e particolare dei laici, dei cristiani che vivono il lavoro, la famiglia, l’economia…. Il ministero pastorale dovrebbe essere a servizio di questa missione.
E questa centratura laicale, sui cosiddetti “mondi della vita”, non sminuisce, né banalizza, né relativizza il ministero pastorale. Domanda piuttosto di impiegarlo con creatività: è il grande tesoro – il talento di Mt 25 – che il Signore ha lasciato ai suoi servi e che va moltiplicato, fatto circolare, aumentato. Viceversa, ci troveremmo a esercitare il ministero sballottati tra pastorali che si vergognano del vangelo e di Gesù Cristo (io vedo con grande preoccupazione cristianesimi senza Cristo, anche da parte di tanti preti che patiscono evidenti complessi di inferiorità rispetto alle culture laicizzate) e pastorali che sono unicamente preoccupate di fare il minimo sindacale, la pastorale di conservazione, come il terzo servo della parabola, alla quale bastava poter dire: «Tanto mi hai dato, tanto ti restituisco. Ecco qui il tuo». Evangelizzare da discepoli missionari è far vedere – in teoria e in pratica – come questo mondo concreto che è la vita che facciamo, che siamo, ha un senso e che questo senso è dato dalla relazione di amore  e di alleanza che c’è tra  Dio e noi, tra Dio e il mondo. Perché nell’esistenza di un Dio creatore, regolatore, anche i massoni ci credono. Ma che tra noi e Dio ci sia l’amore, questa è un’ altra questione, dove valgono ben altre implicazioni».

Un'osservazione di metodo fondamentale

«Concludo con un’osservazione di metodo che mi pare fondamentale - ha precisato don Asolan al termine del suo intervento - . Noi non siamo gente che sta facendo totalmente un’altra vita e poi dobbiamo andare nel mondo a evangelizzare. Noi siamo già nel mondo. Le difficoltà della gente che non ha Dio, o lo ha perduto ad un certo punto della loro esistenza, sono le nostre stesse difficoltà. Non siamo altro (degli alieni, degli extraterrestri) rispetto alla loro vita, noi siamo già in missione. Andando a lavorare ogni giorno siamo già in missione. Chi si sposa o ha una vita familiare stabile, è già in missione… viviamo cioè quotidianamente la condizione di chi è chiamato a seguire Gesù dando significato evangelico alle esperienze fondamentali della vita, che sono le stesse esperienze che fanno tutti gli esseri umani a questo mondo. E per le quali tutti gli esseri umani cercano un significato, una pienezza, che intuiscono come possibilità/desiderio che esista una vita buona, sensata, che duri per sempre.  La questione, casomai, è riconoscere questo e riconoscere che Gesù Cristo o agisce attraverso di voi o non agisce attraverso di voi. Se voi aspettate le condizioni ideali per andare in missione (che voi siate pronti, che abbiate una metodologia appropriata, che gli altri vi chiedano di essere evangelizzati … ) questo non succederà mai. Ma soprattutto negherete alla vostra vita una qualità diversa, che consiste nel viverla con la consapevolezza che Cristo vive in voi, e attraverso di voi dà alla vostra esistenza un senso che è oltre a voi e questo spezza la solitudine dell’insignificanza. Un giorno, a Cafarnao, chi ascoltò Gesù parlare del “pane di vita” gli rispose: «Questo discorso è duro, chi può intenderlo?». In un certo senso anche questo nostro discorso è duro, perché siamo probabilmente chiamati a passaggi che sanno di morte, di fine, ci saranno passaggi dolorosi. Certe esperienze ed attività pastorali, ad esempio, che sono state bellissime, importanti, che hanno fatto la santità della gente, delle vostre mamme, dei vostri papà, dei nostri preti, dei vostri vescovi, dovranno probabilmente essere accompagnate alla fine. Ma anche qui: serve attenzione, una discretio sapiente. Nessun organismo cresce se prima lo si uccide magari con rabbia o con indifferenza e poi lo si rianima con disperazione. Noi non siamo Dio, non possiamo restituire la vita che abbiamo tolto. Quindi prima di fare i vandali devastatori che ammazzano tutte le cose precedenti, chiedetevi che cosa per crescita organica da quello che c’è, può essere trasformato in senso missionario. Non si tratterà semplicemente di decidere: «Basta qua, basta là, via la cresima, via la comunione, via i padrini…». Non abbiamo il compito di creare un deserto: dobbiamo discernere, accompagnare una crescita. E questo discernimento deve essere fatto con la sapienza che è dono dello Spirito, con la carità che è la virtù dei pastori, ai quali la vita della propria gente interessa, sta a cuore. C’è senza dubbio qualcosa che deve essere rivisto, cambiato, fatto evolvere in altre situazioni, in altro senso, e tuttavia facendo sì che questa novità, o meglio questa ricentratura della quale stiamo parlando, sia il frutto del lavoro e della vita che l’hanno preceduto, perché non è che prima non ci sia stato lo Spirito Santo ad agire esattamente come adesso sta facendo per noi».





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