Ho letto con piacere Il viaggio e l’ardimento, l’ultimo libro di Vittorio Robiati Bendaud, coordinatore del Tribunale rabbinico del Centro Nord Italia, intellettuale impegnato nel dialogo tra ebrei e cristiani. Il testo è stato pubblicato verso la fine del 2020 dall’editore Liberilibri di Macerata. Il luogo della casa editrice non è secondario: il libro, infatti, è composto da nove brevi storie che raccontano le vicende della diaspora ebraica nelle Marche. Ancona è nota per essere stata la porta d’Oriente, ma fu anche crocevia di migrazioni delle più svariate provenienze. Vittorio Robiati Bendaud riesce a ricostruire in modo agile e preciso l’intrico di rapporti, incontri e drammi legati a quel contesto storico, mettendo in scena i personaggi più diversi in un affresco sapido, con una scrittura dotta ma mai autocompiaciuta. Commercianti, popolo minuto, celebri rabbini, uomini, vecchi, donne, ragazze: un’umanità composita che racconta l’epopea della diaspora e di esistenze in movimento tra sofferenze e speranze, alla ricerca di un suolo su cui piantare la propria tenda e vivere in pace.
Le storie narrate sono tutte vere, anche se romanzate, e per questo, a parere mio, la loro verità è ancora più prossima al lettore. Se in tema di fatti veri, l’ingiunzione dell’oggettivismo anglosassone è di mantenere la massima distanza possibile dal dato, per non sporcarlo con la nostra parzialità, esiste un’altra forma di realismo, certamente più raffinata. Questa consiste nel cercare la massima vicinanza possibile, arricchendo il dato con una forma di conoscenza troppo trascurata: l’immaginazione (disciplinata). In tal modo, l’artificio letterario è un approfondimento della realtà: questa è la via seguita dall’autore, ed è per tal motivo che il libro può essere definito una non-fiction novel.
Grazie ai racconti di Vittorio Bendaud facciamo la conoscenza di Manoello Giudeo, amico di Dante, che fu alla corte di Cangrande della Scala di Verona, che introdusse nella letteratura ebraica il sonetto; di Sansone Morpurgo, medico, rabbino capo in Ancona e venerato dai cristiani, che nel ‘700 salvò la città da un’epidemia; di Nathan di Gaza, discepolo di Shabbetai Zvì, ebreo che si convertì all’Islam, proclamandosi Messia; di Mosheh Basola, uno dei più autorevoli rabbini italiani della seconda metà del XVI secolo. Queste ed altre le figure di cui si narra, sono purtroppo poco note o semplicemente sconosciute al cosiddetto grande pubblico, pur se hanno avuto grande rilievo nella storia sociale e culturale del nostro Paese. Ma, come detto in precedenza tra le righe, non si tratta di racconti irenici, ma in essi trovano posto fughe, persecuzioni, pregiudizi, inettitudine, vera e propria crudeltà. Colpiscono, tra altre, le pagine dedicate alla devastazione della comunità ebraica di Senigallia (furti, uccisioni, stupri) del 18 giugno 1799 nell’ambito dello scontro tra giacobini e sanfedisti.
Mentre si narra di viaggi, il lettore è invitato a compiere perciò un viaggio interiore tra le altezze e le bassezze dell’animo umano. Attenzione però: l’interiorità cui facciamo riferimento non è il Cogito frigido e solitario di Cartesio, ma il “cuore” della Scrittura, il centro della persona, lì dove avviene la lotta tra bene e male, e ciascuno è chiamato a scegliere la direzione del proprio personale pellegrinaggio. Forse, allora, non è un caso che il libro si apra e si chiuda con Abramo.
Il protagonista dell’ultima storia è Giuseppe Laras, rabbino e intellettuale di primo piano, venuto a mancare nel 2017, tra i più autorevoli esponenti dell’ebraismo europeo del secondo Novecento. Il dialogo ebraico-cristiano deve molto al suo impulso (dato assieme al cardinale Carlo Maria Martini, del quale era amico). Giuseppe Vittorio Laras è stato il maestro di Vittorio Robiati Bendaud, e a questi ha trasmesso larga parte delle conoscenze utili alla scrittura del libro.
La prefazione è di Vittorio Sgarbi. 120 pagine. Il mio consiglio è di leggerlo e poi fare un bel viaggio nelle Marche sui luoghi dei racconti (naturalmente quando ci si potrà spostare di nuovo).