a cura di Prisco De Vivo
poeta e pittore
Nel nostro tempo difficilmente aumenterà la nostra capacità di elevazione al sublime. Nella maggior parte di noi c’è una continua interazione all’ovvio, alle dinamiche più sconcertanti della banalità (modello imprescindibile del nostro tempo); così, drammaticamente, ognuno di noi all’ombra delle proprie pene è consapevole di questa triste realtà.
Ma quanto è lontano oggi dall’uomo la sua essenza, quella relegata allo spirito?
Me lo domando spesso, come spesso rifletto su quello che diceva il filosofo Manlio Sgalambro quando, nella sua premessa al Dialogo teologico, disse: “Io sono un chierico, uno che vive o lo vorrebbe in una continua attenzione allo spirito. Che i miei tempi lo consentono io non ne sono dispiaciuto”. […]. Dovrebbe essere questa la giusta condizione di avvicinarsi allo spirito, all’attenzione, quella di attraversare il proprio intimo con discrezione; quello che porta l’individuo ad un equilibrio interrogativo e cosciente. Un equilibrio che uniforma il proprio corpo e la propria anima sullo stesso piano come un’entità sospesa dall’acqua e sostanziata da essa. In questi ultimi anni ho riconosciuto il lavoro dello spirito come professione, quello che, in fin dei conti, ha pensato Weber, cioè: “dissolversi dalla gabbia d’acciaio invisibile che ci attanaglia e che imprigiona ogni nostra espressione evaporando al tempo e al suo materialismo programmato”.
Con l’avvento della pandemia dal marzo 2020 ci siamo ritrovati tutti nelle grandi distanze e nell’allontanamento sociale; misure restrittive sia fisiche che morali. Così, siamo stati abbandonati ad un dissenso che raccoglie il nostro disappunto, tutti raccolti al proprio carcere dell’ego. Con disinvoltura e placidità in questo periodo di lockdown mi sono concentrato sulle ragioni della spiritualità nel nostro tempo. Ho cercato di carpirne umilmente la sua radice. Il mio lavoro di artista e poeta si è concentrato sempre di più sulla luce e sulla sua sostanza; sulla possibilità rischiarante che ha sull’uomo sia esteticamente sia immaterialmente stigmatizzando ogni disumanizzazione. Naturalmente, anche, quella pandemica. Ho notato che un irrefrenabile desiderio collettivo si è aperto al catastrofico; tirannie digitali che hanno macchiato lo spirito e la ragione creando solo voragini nella propria esistenza e in quella degli altri. Nell’attuale umanità è sempre più evidente il proprio indietreggiare; questo transito all’informazione social, notizie inconsistenti che fuorviano e ci allontanano dalla realtà. Una natura cinica ed impersonale è maturata dietro infime dinamiche.
Perversamente, ci si misura, ogni giorno, con questi diabolici mezzi; tutto surrogato ad un potere che nella maggior parte dei casi non è nemmeno più economico. Ma il potere inquietante della propria immagine, una sorta di narcisocrazia, un (narcisuss in virtute), lavora, giorno dopo giorno, per portare l’uomo al proprio dissolvimento, talvolta, con goliardia e leggerezza. Così, in questo determinato momento storico, ritrovo davvero fondamentale l’abbandono dello specchio per riflettere profondamente sulla sua inutilità. Ritengo che sia importante abbandonare la propria immagine per unirla a quella degli altri, all’inutilità del proprio utile ed occultare la convenienza e disconoscerla come empia. Quando parlo di specchio, parlo soprattutto dei selfie dello smartphone dove, in modo prismatico, affiorano tutti i nostri egoismi.
Sforziamoci un po’, con un contagio collettivo, a non perderci nell’inutilità del possesso e nella miseria del superfluo. Di compiacerci dei nostri capelli e della nostra bocca ben riusciti in una foto. L’altro, poco distante da noi, non ha più i capelli e nemmeno i denti per la piorrea e perché ha vissuto sulla strada, al freddo ed al sole, e lo smartphone, per lui, è un lampo nel sonno. Concentriamoci su quello che abbiamo intorno e non su quello che possediamo. Una sana igiene al nostro vivere va fatta seriamente oggi e non domani. La convinzione è quasi sempre la stessa, una vita che, flessibilmente, per molti è eterna sulla terra, specie quando si è al riparo della propria ricchezza economica; quell’inossidabile lusso che si attacca all’essere e alla sua pelle come una micosi.
Quanto risulta semplice, invece, nutrire l’intelligenza dell’anima con la verità, portandosi verde luce al cuore attraverso la bellezza della trasparenza. Nel nostro tempo, purtroppo, assistiamo, inevitabilmente, ad un eclisse della verità. Una vita, talvolta, nutrita ed irrobustita dal compromesso, devota al suo capitalismo; quello onnipossente ed antiumano. Quella bestia feroce che, senza pietà, si ciba delle disparità sociali.
Una informe massa stratificata che, ad ogni colpo di coda, ha cancellato l’uomo ed il suo spirito. Proprio in questa “società dello scarto”, come ben la descrive Papa Francesco, trionfa la menzogna. Lontano da qualsiasi principio di rinnovamento e di vicinanza all’altro, quale misura esclusiva della misericordia potrebbe nascere in un capitalismo sorretto solo dall’io? Specchio del suo vuoto e della sua annichilente miseria!
Ci dovremo, ancora, abituare alla visione di questo mostro e della sua lunghissima coda che distrugge tutto quello che, indissolubilmente, e del creato. Ma, intanto, spostiamoci con “attenzione" verso lo specchio. Cos’è lo specchio se non la verità? Per molti rimane una lastra di vetro verniciata d’argento, un piano riflettente di luce che ci coinvolge a riconoscere il nostro sembiante. I mistici, nel lontano medioevo, come i monaci ed i santi di quel tempo, concentrati radicalmente al divino, si sbarazzavano dello specchio. Casi, ancora, più estremi, ne negavano completamente l’esistenza. Lo specchio, che si ricercava a quel tempo, era, forse, quello del regista russo Andrej Tarkovskij, uno strumento di conoscenza e di punizione. Tarkovskij, non a caso, cercava nello “specchio” l’intimità della catarsi; quella di unire la sua vita, la vita degli individui e dei popoli nell’essenzialità al di sopra di tutti gli egoismi possibili. E dove alberga la verità? La verità, ormai, è impastata alla falsità; è un dato di fatto ed una condizione sociale nel comune vivere.
Ci ritroviamo davanti una malta dove sono miscelati due elementi: falsità e verità; questa malta costruisce e cementifica “la catastrofe” della vita che noi conosciamo. La genuinità dei santi di Dio, degli uomini senza io a noi è ben lontana. Se solo pensiamo a Simone Adolphine Weil (filosofa, mistica e scrittrice), che negli anni ’40, nel pieno della seconda guerra mondiale scriveva: “solo i folli e i poveri, con assoluta limpidezza di sguardo contemplano la verità del mondo e ne colgono tutto lo splendore”. Quella follia ed umiltà che ci fa sfuggire dal contagio delle brutture che persistono nei perversi sistemi di vita (costruiti dall’uomo) e dalle sue inumane politiche totalitarie.
In questi giorni, di ritorno alla mia abitazione, due coniugi anziani si sono avvicinati a me, e con espressione timorosa mi hanno domandato: “Da qui a qualche anno cosa ci aspetta? Cosa ci sarà?” In quel determinato momento, non sono stato in grado di rispondere. Ho pensato a Davide Maria Turoldo a quella sua poesia testamento che è E ci saranno cieli nuovi… la quale recita così: «Mentre la terra sarà di nuovo informe e vuota/ e le tenebre ricopriranno l'abisso/e lo spirito aleggerà sulle acque». […]. Il poeta e mistico auspicava ai suoi cieli nuovi, ai cieli che rimarranno al loro sole per la terra, il cielo e la terra di Dio, cristallizzata nella purezza della sua natura, quella non più sporcata dall’uomo; un patrimonio eterno da restituire al suo creatore che noi dovremmo impegnarci a custodire senza più ripensamenti.