a cura di don Lino D'Onofrio
docente di Ecclesiologia all'Istituto Superiore di Scienze Religiose Duns Scoto
«Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita. Più della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata e Gesù ci ripete senza sosta: 'Voi stessi date loro da mangiare' (Mc 6,37)» (Evangelii gaudium n. 49).
È questa la prima citazione del testo La conversione pastorale della comunità parrocchiale al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa che la Congregazione per il Clero ha emanato il 20 luglio scorso. Evidentemente è da queste prime suggestioni che dobbiamo partire per comprendere il senso del contributo ricevuto e che potrebbe essere come una chiave di lettura anche per il futuro.
Indubbiamente il documento ha avuto una lunga gestazione ed è frutto della rilettura del magistero di Francesco e dei diversi Sinodi che si sono succeduti in questi anni; il tempo della pandemia ha anche contribuito a farci leggere la realtà della comunità credente e della parrocchia in una chiave del tutto differente, se non ci fosse stato l’evento di questa forzata sosta probabilmente i commenti a questo documento sarebbero stati di tutt’altra natura e ci saremmo soffermati su aspetti che invece al momento sono passati in secondo ordine rispetto alle urgenze nuove che abbiamo sperimentato in questa ultima esperienza.
Tutti abbiamo avuto modo di provare la difficoltà del sentire la parrocchia come luogo di comunità, abbiamo avuto l’esperienza del rito - di cui abbiamo lamentato la mancanza o la povertà -, quella della carità - che però si è equiparata a quella di tante altre ‘agenzie’ di territorio perdendo il sapore del segno fatto in nome della fede -, la comunità come incontro di volti e di storie - le esperienze si sono frantumate in una serie di passaggi virtuali di sensazioni ed emozioni -.
In questo tempo il documento sulla realtà parrocchiale ridice la centralità di questo presidio pastorale in mezzo alla vita degli uomini, se ne avverte la necessità (nn 6-13 e 13-15), ma gli si chiede di porsi in atteggiamento missionario rispetto alla vita degli uomini. Qualcuno potrebbe dire che “non è una novità”, ed è vero, tuttavia proprio questo tornare sulla centralità di questa esperienza pur dovendone costatare la debolezza della presenza, ci permette di intravedere forse una strada che non deve sfuggirci. Si tratta di comprendere non la semplice parrocchia ma il territorio come luogo della presenza credente. Questa mi sembra l’accezione missionaria che dobbiamo forse integrare alla nostra visione pastorale. Il documento invita a questa chiave di comprensione che chiede allora una conversione di sguardi.
Il primo passaggio è quello da una realtà ancora vissuta come monocratica ad una esperienza partecipata. Se volessimo usare un’immagine direi dall’isola all’arcipelago. È, in verità, questa una visione ancora non chiara all’interno delle stesse comunità parrocchiali che continuano a sentirsi senza legami tra le persone e le vocazioni, che fanno ancora difficoltà ad avvertire anche le semplici correlazioni tra le tre dimensioni dell’annuncio, carità e liturgia, che si ostinano in una dinamica delle programmazioni (con modelli scolastici piuttosto che missionari ed ecclesiali), più accorti alle esigenze del metodo che del vangelo, in cui la gioia è nemmeno a livello concettuale una delle finalità dell’esperienza credente.
In questa linea anche il territorio si frantuma dietro a strategie da attuare che fanno pensare immediatamente ad organi come consigli interparrocchiali, coordinamenti pastorali e altri luoghi di organizzazione. Tutto ciò che non rientra immediatamente nella vita della parrocchia o non si lascia ingabbiare dalla struttura non è ritenuto funzionale alla vita di questa e del territorio. La via del riconoscere potrebbe invece aiutare ad una risignificazione della realtà parrocchiale. Piuttosto che ignorarsi, come avviene in tante dinamiche fallimentari della vita di coppia che stancamente portano avanti un’esperienza di morte annunciata, potremmo imparare a riconoscerci. Il territorio è ricco di molte forme di servizio all’uomo da quella strutturata e normata - le tante sigle dei servizi sociali o degli osservatori della realtà cittadina o di ambito - a quella delle realtà di animazione culturale e di servizio del volontariato che hanno a cuore una presenza talvolta invisibile. Alla parrocchia spetterebbe forse tessere una rete di relazioni di benvenuto atte a facilitare la visibilità di questo trasversale mondo della cura dell’umano. Questo ministero permetterebbe alla realtà parrocchiale stessa di vivere meglio la propria esistenza, uscendo dall’asfittica vita delle molte attività per trasformarsi in un laboratorio pastorale reale. Potrebbe essere un bel segno di gratuità, perché non finalizzato a voler inglobare le presenze ma a servirle, a non porsi sempre al primo posto ma a mantenere un’identità del territorio e delle persone che lo vivono.
Questa prospettiva ci permetterebbe forse di fare nostro l’orizzonte del testo fondativo richiamato in apertura, immettendoci veramente nella libertà di lasciarci inquietare e preoccupare, uscendo da un tranquillo e soporifero stato di coma, favorendo il senso della fraternità nel cristiano e risignificando l’identità della comunità credente: l’orizzonte è l’accoglienza e il dare senso alla vita. In questa linea potremmo uscire dal timore: la paura di sbagliare e vincere l’insidia di rifugiarci nella tranquillità apparente, che sta uccidendo la nostra esperienza di credenti. Saremmo aiutati a mettere in pratica la parola del Maestro: “Voi stessi date loro da mangiare” (Mc 6,37) vivendola come possibilità concreta di 'dare loro da mangiare noi stessi', darci come cibo è allontanare ogni forma di fame e ogni carestia di spirito.