È di nuovo mattina

Una singolare intervista nata dalla penna di don Domenico Panico. Con tanti spunti di riflessione sul tempo che stiamo vivendo

 


a cura di don Domenico Panico

vicario episcopale per gli affari economici e amministrativi

parroco a San Francesco d'Assisi, contrada ai Romani, Sant'Anastasia

 

“Quello che mi ha sorpreso di più negli uomini dell’Occidente è che perdono la salute per fare i soldi e poi perdono i soldi per recuperare la salute. Pensano tanto al futuro che dimenticano di vivere il presente in maniera tale che non riescono a vivere né il presente né il futuro. Vivono come se non dovessero mai morire e muoiono come se non avessero mai vissuto” (Dalai Lama)

 

It's morning again...

Un film scritto e diretto da J.F.K. Covid. Sceneggiature originali di G.W. Lockdown


Wuhan, 28 maggio 2020

Suite 313 Hotel della Pace. A Wuhan il clima è primaverile e l'aria tiepida. Una lieve brezza agita le chiome dei grandi alberi ai lati dei viali cittadini. Nonostante l'ora tarda, il via vai di automezzi e persone è molto intenso. La più parte dei negozi è ancora aperta e i locali notturni cominciano ad affollarsi di giovanotti che arrivano in moto e siedono ai tavoli all'aperto. I loro volti sembrano spensierati e sereni. La città è molto diversa da come l'avevo immaginata guardando il film nel quale è deserta come dopo l'esplosione di una bomba al neutrone. Le luci delle insegne, le auto che sfrecciano in strada, le risate dei giovani raccontano una storia del tutto diversa, quella di una città occidentalizzata che ha conosciuto un improvviso benessere. E se lo gode...

Sono in città per incontrare John F.K. Covid, il regista del fortunato It's morning again, che ha fatto proprio di questa popolosa città del continente cinese il luogo-simbolo da cui si snoda la trama del film.

Incontrarlo non è stato facile. Suo malgrado, Mister Covid è divenuto una star. Passato in un amen dall'anonimato alla fama, ora, è braccato da tutti i principali network, che non gli danno tregua per avere un'intervista. Il film è uscito qualche giorno fa ed è stato proiettato in contemporanea in tutto il mondo. Il regista non credeva nel successo dell'opera e, ora, può dire di aver vinto la sfida alla grande. Perché, e lo diciamo subito, It's morning again non è uno spettacolo per stomaci delicati, non è un film di semplice lettura ma il suo messaggio è chiaro, nient'affatto subliminale. Nel complesso, si tratta di un film ben girato e ottimamente sceneggiato; il linguaggio delle immagini, che prevale sui dialoghi (pochi, in verità, ma significativi), è duro, nervoso, scattante, problematico. Nel film il mondo si trova improvvisamente avvolto da un intramontabile buio che, non solo genera angoscia e senso di precarietà, ma quasi prende per mano lo spettatore e lo conduce a domandarsi: Basta così poco per smontare le nostre vite?

Chiarissimo, dunque, l'intento del regista di questo film antiretorico, anticonvenzionale, diretto, esplicito, crudo e, a tratti, feroce, per esempio, quando parla della morte. Il film, insomma, non è soft e il politically correct è bandito. La regia non si perde mai in fronzoli, com'è nello stile dell'uomo che ho avuto di fronte, il quale, durante la nostra chiacchierata, non ha mai pronunciato più parole di quante erano necessarie per esprimere i concetti. In realtà, non mi ha chiesto neppure se il film mi fosse piaciuto e non perché l'abbia dato per scontato ma, più probabilmente perché non gl'interessava saperlo.

«Noi uomini dimentichiamo in fretta - mi ha detto - e tendiamo ad archiviare il passato in cassetti top secret della memoria, anche collettiva. Se lei domanda a un adolescente chi è Adolf Hitler si sentirebbe dare le risposte più fantasiose e più lontane dal vero. Rimuoviamo in fretta, soprattutto ciò di cui non vogliamo assumercene la responsabilità ed è per questo che molti errori si ripetono con sconcertante regolarità. A Three Mile Island segue Bophal, a Cernobyl risponde Fukushima e, prima ancora, il fungo atomico aveva cancellato Hiroshima e Nagasaki. Ma chi si ricorda di queste tragedie? Quasi nessuno! E coloro che se ne ricordano o sono storici di professione o hanno interesse a sostenere che sono stati 'solo' tragici incidenti. La storia che ho cercato di narrare ci pone, invece, davanti a scenari inediti ma non impossibili, di cui bisognerebbe tener conto. Non è improbabile che un caso simile si verifichi veramente. Nel mondo d'oggi c'è, infatti, una nuova generazione di scienziati folli che, per entrare nel Guinness dei primati, farebbe pazzie ma, nello stesso tempo, c'è una generazione di consumatori che, pur di possedere i prodotti più alla moda, non si domanda mai quanto lavoro minorile sia stato impiegato o quanto sia stata sventrata la terra per ottenere i minerali necessari. La nostra generazione vuole possedere di tutto e di più e vuole farlo anche in fretta, senza porsi domande. Perché, ovviamente, le domande esigono risposte e le risposte esigono, a loro volta, atteggiamenti coerenti. La storia che racconto nel film ci mette, invece, dinanzi a una tragedia collettiva e di sistema, della quale non ho voluto scrivere un lieto fine. Perché è una tragedia che, lasciando ferite profonde nell'animo e nel corpo, non può essere riassorbita nel breve periodo. Non possiamo continuare a fingere che tutto va bene, che tutto andrà sempre bene e che alla fine siamo sempre noi a sfangarla. Il lieto fine di questa storia lo lascio scrivere al pubblico e alla società. Io mi sono limitato a porre, anzi, a riproporre domande molto antiche e vitali. Il mio film tratteggia una lunga notte che cala su un punto del globo ma che immediatamente si diffonde e lo oscura tutto. È la notte in cui l'umanità è sorpresa da un nemico invisibile e imprevisto che arriva come un ladro e la costringe a cedergli ampie fette di territorio: il nemico avanza a macchia di leopardo ma non trova ostacoli e obbliga alla trincea l'uomo perché il suo pur ricco arsenale è inadeguato. Qualche critico ha obiettato che l'idea intorno alla quale si sviluppa il film è abusata e poco originale e, in parte, potrebbe essere anche vero. Ma il mio film non s'inserisce nel genere apocalittico e, credo che l'immaginifica scenografia di Mister Lockdown abbia saputo ben miscelare tragedia e speranza per farne, in qualche modo, un'opera poetica nella quale grandi storie di dolore e di morte incrociano storie ancor più grandi di solidarietà e di altruismo, che delle prime vogliono rappresentare il farmaco».

Intanto che parlava, scrutavo con attenzione il mio interlocutore, che mi appariva, come persona, l'antitesi dell'autore del film. Giovanile anche se non più giovane, Mister Covid è, infatti, una persona riservata, schiva, gentile, attenta. Un galantuono d'altri tempi, insomma. La sua lunga, fluente chioma brizzolata incornicia uno sguardo magnetico e i suoi occhi sono di uno straordinario verde-smerealdo che irradiano luce e, come lame, penetrano nel mio sguardo.

Mister Covid non ama parlare di sé e della propria vita privata e, appena accenno una timida domanda sul tema, mi oppone un cortese rifiuto. L'unica concessione che mi fa è confessarmi che un John F.K. Covid in realtà non esiste. Questo nome è solo lo pseudonimo adoperato per firmare la sua opera prima, che sarà anche l'ultima: John Fitzgerald Kennedy, in omaggio al presidente americano ("il suo Ich bin ein Berliner", dice, "mi è rimasto conficcato nella memoria a caratteri di fuoco") e Covid, che è acronimo di come per un'overdose di idiozia.

Ad un certo momento dell'intervista, come fosse stato assalito da un pensiero molesto, Mister Covid ha distolto lo sguardo da me e, contemplando il vuoto, mi ha detto, quasi terminando un ragionamento iniziato nella sua mente, che l'idea di girare questo film l'aveva concepita molto tempo prima ma ne ha sempre ritardato la realizzazione per timore di essere visto come un profeta di sventure.

«Io non presumo di essere un uomo più lungimirante o più intelligente di altri ma ogni giorno mi domando come si fa a non capire che le leve del progresso sono sfuggite di mano al controllore. L'uomo sembra aver perso del tutto il senso del limite e si erge fin troppo impudicamente di fronte alla vita e alla natura. L'uomo è come incapace di parlare con la natura e di stabilire un'alleanza con il creato del quale, al contrario, si sente padrone e signore. Perciò, il mio film è drammatico ma, in definitiva, non tragico. Avrebbe, forse, avuto senso proporre ancora un soggetto che strappa lacrime destinate a essere subito archiviate e rimosse? Poiché anche la mia vita è stata, per larghi tratti, poco o per nulla edificante, ho preferito prendere spunto proprio dalla mia esperienza borderline, vissuta come in un'overdose di idiozia. Nella mia vita ho fatto del male ma sono anche stato fortunato perché qualcuno mi ha fermato proprio quando già il baratro stava per ingoiarmi. Io sono sempre stato consapevole del male che facevo, ma ora ho l'impressione che molti ne sono inconsapevoli al punto da pensare di fare, addirittura, bene. Per dire la mia non ho chiesto aiuto a nessuno. Ho impegnato esclusivamente le mie risorse finanziarie e ho disposto che i ricavi del film vadano a enti di beneficenza perché, alle parole, desidero far seguire anche fatti. Mi auguro, dunque, che il film sia visto da molti e che costoro si lascino afferrare, almeno, da qualche dubbio. Le sciagure, di cui ho riproposto le immagini all'inizio del film, purtroppo sono state sempre derubricate a semplici incidenti ma esse condizionano ancora la nostra vita. Chi può escludere con certezza che non vi siano più persone su cui pesano le conseguenze di quegli eventi? Per gli amanti del profitto a tutti i costi esse rappresentano solo un dazio inevitabile da versare al progresso ma, ciononostante, io sono sempre più persuaso che non è vero progresso quello che lascia dietro di sé cadaveri. Il lavoro serve all'uomo non al profitto: nel film, infatti, le uniche attività che continuano sono quelle legate allo sviluppo e alla produzione di farmaci e al confezionamento e alla distribuzione degli alimenti, tra le poche cose veramente necessarie all'uomo».

A Mister Covid non difettano coraggio e chiarezza ed egli non sembra affatto il neofita adepto di una nuova religione che è ferocemente contro ogni idea di modernità e progresso. Mister Covid è solo un uomo convinto che il benessere non può giustificare lo sfruttamento indiscriminato della natura e, dunque, non è stato neppure casuale che egli abbia voluto girare le prime scene del film proprio in questa regione che, negli ultimi decenni, ha registrato il maggior consumo di suolo, lo sradicamento di interi villaggi e città, lo stravolgimento della geografia di fiumi e laghi e lo sfruttamento indiscriminato delle risorse fossili, tutte cose che avranno, forse, giovato al pil ma con gran danno per l'ambiente.

«Ho lanciato un grido d'allarme che, spero, non cada nel vuoto. Sono sempre più persuaso che i pericoli per l'umanità verranno non da una guerra termonucleare (che tutti si guarderanno bene dal dichiarare dopo averla usata come deterrente) ma dalle stesse attività umane e dalla natura, che non tarderà a ribellarsi agli insulti dell'uomo. Il microrganismo, che nel mio film procura tanto sconquasso, si chiama volutamente Coronavirus perché, proprio come un Re ambizioso che desidera allargare la propria zona d'influenza, invade il regno dell'uomo e lo sottomette...»

Mi convinco che It's morning again non è un inno a un certo ecologismo radical chic ma un grido di denuncia: il progresso tecnologico e il benessere non bastano da soli a renderci migliori e più umani e che una vita, agiata ma egoista, è una vita disattenta alla patria comune dell'umanità, una vita sorda alle domande mute della natura e chiusa alle richieste e alle offerte d'amore degli altri uomini. Effettivamente, i ritmi frenetici che ci siamo imposti non ci arricchiscono ma minano la salute, sempre più soggetta a malattie da benessere, ma anche sentimenti e valori, ridotti ormai a un di più. Forse, siamo ancora in tempo per rallentare e disporci a un non fare, essenziale il fare, in cui l'astenersi non è un'omettere. Nel film, quando il Coronavirus si propaga e non c'è strategia utile a fermarne l'avanzata, le autorità chiedono ai cittadini la cessione di quote di libertà (un non fare, dunque: non uscire, non creare assembramenti...) perché interrompere la trasmissione del virus è l'unico modo per incrementare le quote di sicurezza comune. E il non fare dei singoli cittadini si rivela proficuo tanto quanto l'opera di coloro che curano i malati per strapparli alla morte.

«Collaborazione e corresponsabilità non sono mai indolori. Ogni rinuncia è un contributo al bene comune. Nel film il contributo è l'assunzione di responsabilità personali. Le grandi sfide della vita non si possono vincere diversamente perché la vita è un intreccio di combinazioni, di opportunità, di possibilità, di incontri, di occasioni, di successi, di fallimenti e di contraddizioni nel quale non tutto dipende dalla nostra volontà ma molto è legato alla buona volontà, la quale rende possibile l'impegnativo conciliarsi degli opposti e dei contrari. Se vuoi arrivare prima, dice un proverbio africano, corri da solo. Ma se vuoi andare lontano, cammina con gli altri. Tutti noi siamo angeli con una sola ala e possiamo volare solo rimanendo abbracciati... La nostra società, invece, ama e incoraggia la competizione a scapito della collaborazione e lascia troppi individui ai margini. Senza collaborazione ciò che di per sé è difficile è destinato a diventare anche impossibile. Non è mai facile accompagnarsi a casuali compagni di viaggio e invocare aiuto, persino, dallo straniero, ma è indispensabile riuscirci. Non è facile perché la nostra società tende all'individualismo, coltiva il mito del successo, guarda con sufficienza alla debolezza e alla fragilità e, soprattutto, non regala nulla. Il vero scandalo è che una minoranza detiene la maggior parte delle ricchezze del pianeta a discapito di una maggioranza che muore di fame. Bisogna pur rendersi conto che alla nostra agiatezza manca quel qualcosa di importante, capace di accendere i desideri più nobili e a vestirli di speranza».

Mentre Mister Covid parlava, ricordavo di aver letto da qualche parte: "per raggiungere la serenità interiore, è bene non trascurare quel che c'é di favorevole e di buono negli avvenimenti che ci capitano contro la nostra volontà" e ho capito perché il film si intitoli 'è di nuovo mattina...'  Il desiderio di Mister Covid vuole vestirsi di speranza!

«La scena più angosciante del mio film è, forse, quella in cui la macchina da presa indugia fino alla nausea sulla lunga teoria di automezzi militari che trasportano il macabro carico di salme di coloro che sono morti in ospedali e residenze per anziani in completo anonimato. Non è una scena gratuita. Ne ho discusso a lungo con lo scenografo, mister Lockdown, e insieme abbiamo convenuto di montarla perché desideravamo far capire che è necessario riappropriarsi dell'idea della morte e del limite, che sono realtà umane da vivere umanamente: non possiamo fingere che la morte non esiste o che esiste solo per alcuni.  Si viene al mondo e si parte dal mondo: non si può, dunque, accettare la nascita come lieto evento ed espellere la morte, ostinandoci, peraltro, a parlarne in politicamente corretto. Io credo che dal modo in cui ci si rapporta alla morte e al limite dipende, in buona sostanza, anche la qualità del vivere. A che giova recriminare, come fanno i parenti dei defunti nel film, che qualcuno o qualcosa ci ha espropriati del diritto di piangere i nostri cari se, invece, già da tempo si è rinunciato al dovere di umanizzare la morte?".

Mentre trascrivevo queste ultime parole, mi sono ricordato di Schopenhauer: Il grande dolore che ci provoca la morte di un conoscente o di un amico deriva dalla consapevolezza che in ogni individuo v'è qualcosa che è solo suo, e che va perduto per sempre”, e ho fissato Mister Covid negli occhi. Lucidi di lacrime, come i miei. Gli stringevo la mano e quasi non gliela lasciavo più. Non prima, almeno, di dirgli: Grazie, mister Covid. Insieme a lei, io spero It's the morning again... 






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