Torre Annunziata è una realtà composita. La cosiddetta zona nord è il volto “bene” della città con qualche quartiere residenziale per i professionisti e i commercianti più in vista, e il corso principale coi negozi più frequentati. La zona sud, dove è situata la parrocchia di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, ospita i rioni più difficili e le case popolari. L’epidemia di coronavirus, dunque, si è abbattuta su un organismo fragile, dal Pil procapite di poco superiore a quello di paesi come Slovacchia, Lituania e Polonia, ma dal tessuto sociale che, assieme a criticità, presenta anche tante zone di vivacità e voglia di protagonismo civico, specie nelle fasce più giovani. In tutta la città solo sette persone hanno contratto il covid-19, ma purtroppo due di questi non ce l’hanno fatta.
Come sta vivendo la comunità di Sant’Alfonso questi giorni? «Io sono fondamentalmente sereno – esordisce il parroco don Ferdinando Ciani Passeri – e con questo non voglio dire che io non sia toccato dalla drammaticità del momento, ma che lo vivo in affidamento alla volontà di Dio. Sto facendo una vita abbastanza solitaria – prosegue il presbitero – accudendo mio padre anziano e provando a seguire il più possibile la comunità». Cosa pesa di più? «Celebrare messa senza popolo, è un handicap, è brutto non vedere le persone, volgere lo sguardo a una chiesa vuota. Vorrei fare di più per i parrocchiani, ma dobbiamo tutti rispettare le vigenti restrizioni statali e la libertà di movimento è ridotta. Certo, come tutti, mi aiuto con le nuove tecnologie: non solo telefonate, ma anche messa video tramite whatsapp e celebrazione della messa in diretta facebook. E poi contatti continui con la mensa cittadina e col comune: anche Sant’Alfonso fa la sua parte per aiutare in modo mirato chi ha bisogno in questo momento di crisi, in coordinamento con le altre forze presenti sul territorio. L’epidemia di coronavirus sta già creando tanta sofferenza sociale, e dobbiamo prepararci a gestire quella che si genererà dalla fine della fase acuta dell’emergenza in poi». Ma nel presente a tinte fosche, è possibile anche intravedere opportunità. «L’essere in relazione – prosegue il parroco - è l’essenza dell’uomo. Ora che la relazione ci è sottratta, probabilmente abbiamo l’occasione per ritornare a quella essenza che forse avevamo dimenticato. Manca il tocco che mette in relazione, mancano gli sguardi – e sappiamo che a volte solo con gli occhi si comunica parecchio – e forse, quando tutto sarà finito, la gente avrà avuto modo di apprezzare di nuovo il dono che stavamo sciupando». E in una città che si fa deserto silenzioso, pezzi di mondo e di vita si risvegliano. «Voglio raccontare un piccolo aneddoto: ieri stavo camminando nei pressi di casa mia per andare a fare una commissione importante, e nella stradina deserta e silenziosa ho sentito l’odore delle gemme dei peschi e dei fiori di campo, un odore che mi ha riportato all’infanzia! Non lo sentivo da tantissimo tempo: l’aria depurata dai rumori e da un po’ di inquinamento, mi ha fatto recuperare un odore che avevo dimenticato. Ecco, il momento è critico, ma possiamo ora accorgerci di ciò che ci stavamo perdendo e magari recuperarlo quando le cose torneranno alla normalità».
«Avverto che a tanti mancano i momenti di incontro e stiamo capendo l’importanza della comunione». Così inizia il suo racconto Domenico Veneziano, presidente dell’Azione cattolica parrocchiale, marito e padre. «Questa fermata – prosegue Veneziano - può servire secondo me alla nostra comunità per fare un po’ il punto della situazione: gli ultimi mesi per noi sono stati particolari, perché abbiamo cambiato il parroco dopo più di 30 anni e di conseguenza è iniziato, per così dire, un nuovo ciclo per la parrocchia. Io credo che questo tempo di sospensione, inoltre, possa poi pure aiutarci a vedere nelle giuste proporzioni quelli che fino a ieri potevamo considerare problemi gravi e che invece, magari non lo sono davvero, a far decantare le questioni, insomma: mettere un po’ di distanza tra noi e le cose ci aiuta a considerarle nel loro valore effettivo». Con l’esplosione dell’epidemia e le prime restrizioni governative, l’associazione ha dovuto riorganizzare un po’ le proprie attività. «Ho subito capito si trattasse di una cosa seria e ho iniziato a limitare gli spostamenti, sia per me che per la mia famiglia, seguendo con precisione le direttive di legge. A livello associativo, ovviamente, siamo stati colti di sorpresa, ma credo sia un’esperienza di tutti: personalmente ho fatto affidamento sul consiglio parrocchiale e sui vari educatori per trovare insieme una strada per raggiungere tutti, per non lasciare nessuno da solo, e tutti sono stati disponibili a mettersi al servizio anche in questa situazione inedita e preoccupante per ciascuno di noi. Oltre all’utilizzo dei social e dei programmi di videochiamata per mantenere i contatti, ci siamo preoccupati di raggiungere telefonicamente gli adultissimi, gli anziani, che in questa emergenza rappresentano una delle parti più deboli». Cosa può imparare l’associazione in questo momento così delicato? «Io credo che ci stiamo scoprendo un’associazione abbastanza matura e forte. Tutti stanno dando una mano, anche piccola, per far funzionare le cose, con grande abnegazione, e devo solo essere grato. Anche sull’aiuto fattivo ai più poveri, c’è sempre generosità, ma questo tempo mi ha fatto rendere conto che, come associazione, dobbiamo fare ancora un passo in avanti. Non mi riferisco a “dare di più”, non è quello il punto: la questione è la conoscenza del territorio e dei suoi bisogni. Da quando è iniziata l’emergenza, l’associazione si è resa disponibile per andare incontro alle difficoltà dei più svantaggiati eppure, dobbiamo ammetterlo, rispetto a qualche anno fa è diminuita la nostra conoscenza profonda delle zone e delle situazioni di disagio e difficoltà. Su questo dobbiamo lavorare: urge entrare ancora di più nel quartiere, nelle cose, conoscere le persone, non solo quelle che frequentano la parrocchia, ma tutti. Ecco, accanto alla bellezza della pronta volontà di ciascuno a fare la propria parte, possiamo prendere questo come compito da svolgere per il post-emergenza».