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Si è chiuso questa mattina il percorso di esercizi spirituali guidato dal vescovo Marino. Nell'ultima meditazione il vescovo si è soffermato sul momento della discesa degli apostoli e di Gesù dal monte Tabor.
"Con questa meditazione scendiamo dal monte non solo con Gesù, Pietro, Giacomo e Giovanni, ma insieme anche a chi aveva già prima di loro, secondo la Bibbia, percorso quella strada: Debora e Barak. Dopo quanto i discepoli hanno sperimentato, nulla può essere più come prima, e può cambiare qualcosa. Se il monte su cui è stato Gesù fosse il Tabor - come è attestato da un testo di Cirillo di Gerusalemme del 348 - questo viene nominato poche altre volte nella Bibbia, ma, significativamente, le prime in occasione di un episodio narrato nel libro dei Giudici (Gdc 4-5), che vede protagonisti una donna giudice, Debora, e quello che, almeno nell’interpretazione rabbinica, è il suo sposo, Barak (o Lappidot).
Si tratta dell’unico caso in cui un giudice è donna, la cui funzione di guida si svolge anche nel giudicare sotto una palma, sulle montagne di Efraim. Da vent’anni gli Israeliti erano oppressi da una lega di città stato cananee, che usavano una tecnologia innovativa sconosciuta alle tribù degli Ebrei, ovvero il ferro, con il quale avevano costruito «novecento carri» (Gdc 4,3) che li rendeva invincibili.
Il racconto inizia quando, non si sa come e perché. Debora manda a chiamare Barak per dirgli: «Sappi che il Signore, Dio d’Israele, ti dà quest’ordine: “Va’, marcia sul monte Tabor e prendi con te diecimila figli di Nèftali e figli di Zàbulon. Io attirerò verso di te, al torrente Kison, Sisara, capo dell’esercito di Iabin, con i suoi carri e la sua gente che è numerosa, e lo consegnerò nelle tue mani”» (4,6-7). La risposta di Barak è stata interpretata da diversi esegeti come un segno di sfiducia, un prendere le distanze e soprattutto tempo: «Se vieni anche tu con me, andrò; ma se non vieni, non andrò» (4,8). L’interpretazione che viene dalla lettura contestuale relazionale familiare è invece un’altra: «c’è un coraggio femminile ed un coraggio maschile, e solo l’unione dei due vince il nemico». C’è un coraggio al femminile che spunta dalle sue viscere, per così dire: è il coraggio di vedere ciò che spesso gli uomini non vedono, è il coraggio di segnare la strada, di sapere quale direzione prendere, di percepire il pericolo, mentre gli altri non lo percepiscono; ma è anche il coraggio della speranza, della fiducia che qualcosa bisogna pur fare, del vedere una piccola luce dove altri vedono ancora buio. E il coraggio delle donne che incontrano il Risorto: mentre i discepoli se ne stanno costernati e incapaci di azione, loro sanno che c’è ancora qualcosa da fare [...]. Ma il coraggio femminile è anche il coraggio della debolezza: se pretende di far tutto da sola, lei prevarica, esclude, annienta e lascia soli; è proprio del coraggio femminile chiamare a combattere l’altro. E com’è il coraggio al maschile? Barak ha molto da insegnarci: gli uomini, quando vanno alla guerra, rischiano di non controllare più la violenza. [...] Lasciato da solo, il coraggio maschile può essere distruttivo. Ma - insegna Barak - «se vieni anche tu con me, andrò». È il coraggio del limite: il coraggio maschile sa che ha bisogno del femminile, per potersi fermare, per trattenersi al di qua del baratro della violenza gratuita. [...] Il vero coraggio è “a due”, cioè un ’alleanza sana tra maschile e femminile (G. Michelini - G. Gillini - M. Zattoni, Il libro dei Giudici).
Quello che accade poi lo sappiamo: Debora avverte Barak, e gli dice che è tempo di attaccare: «Alzati, perché questo è il giorno in cui il Signore ha messo Sisara nelle tue mani. Il Signore non è forse uscito in campo davanti a te?»; Barak scende dal monte Tabor con diecimila uomini, e sconfigge i Cananei. Cos’era successo? Debora, come si legge nel suo cantico, al capitolo successivo, aveva compreso che stava per piovere, e che i potenti e pericolosi carri di ferro si sarebbero impantanati nella pianura allagata sotto il Tabor. La madre di Israele - così si autodefinisce in Gdc 5,7 - canterà: «Dal cielo le stelle diedero battaglia, dalle loro orbite combatterono contro Sisara. Il torrente Kison li travolse; torrente impetuoso fu il torrente Kison» (5,20-21). La profetessa aveva capito che stava per piovere, e che gli elementi naturali sarebbero stati l’esercito del Signore: la pioggia torrenziale, l’esondazione del torrente Kison rendono inutili i carri di ferro, anzi, diventano un vero impedimento perché le ruote si impantanano, mentre gli israeliti possono agevolmente assalirli. Per questa ragione l’invincibile nemico Sisara è costretto a scendere dal carro e fuggire a piedi, per cadere poi ironicamente da solo come preda di un’altra donna, Giaele, che gli infilzerà nella tempia un picchetto preso dalla tenda dove si era rifugiato (4,21).
Da questa pagina non impariamo soltanto «che lo Spirito Santo può scegliere qualsiasi tipo di persona per investirla di una missione - come cioè Debora; il passo, che riecheggia da vicino quello della lettera di San Paolo ai Galati (3,28), è uno dei più chiari di tutta la letteratura midrashica sulla uguale dignità delle persone: [...] “Chi è Debora, che fu profetessa in Israele ed esercitò il giudizio sugli Ebrei? [...] Insegna il Tanna de-be Eliyyahu: ‘Chiamo il cielo e la terra come miei testimoni del fatto che sia un pagano sia un ebreo, sia un uomo sia una donna, uno schiavo o una schiava, su tutti questi, per merito delle proprie opere, si può posare lo Spirito Santo’”» (M. Perani, Personaggi biblici nell’esegesi ebraica, 113). Da questa pagina abbiamo anche imparato che il primo esempio di sinodalità è quello che viene dalle coppie e dalle famiglie, dove si può vincere solo stando uniti e lavorando insieme. Il nemico che non può essere sconfitto da soli, si vince nella comunione.
Torniamo ora a Gesù, Pietro Giacomo e Giovanni. La meravigliosa e gloriosa trasformazione di Gesù ha avuto termine, e la bellissima visione dei due profeti con lui, mentre scendono dal Tabor, è svanita. Si scopre così che la trasformazione del Cristo è quella che ha avuto luogo davanti agli occhi dei discepoli: Gesù era ed è sempre stato così, anche se i suoi non lo vedevano e solo in quell’istante il Padre ha permesso che mostrasse il suo volto. Deve cambiare il modo in cui d’ora in avanti lo cercheranno: non semplicemente nella gloria, ma nella ferialità dell’esperienza quotidiana.
Anche per Gesù non vengono registrati nei vangeli episodi simili alla Trasfigurazione. Riassumo qui le conclusioni di un lavoro pubblicato per Annali di storia dell’esegesi (G. Michelini, «Gesù e la chiesa delle origini alla ricerca di certezze»), un confronto tra Alessandro Magno e Gesù. Infatti all’inizio del II sec. d.C. circolavano nello stesso milieu ellenistico-romano due insiemi di libri: le Vite parallele di Plutarco, con la Vita di Alessandro, e diversi scritti neotestamentari, tra i quali i vangeli e gli Atti degli apostoli. Il lettore che avesse confrontato i modi in cui Plutarco, da una parte, e gli evangelisti, dall’altra, descrivevano come il Macedone o Gesù o suoi discepoli giungevano a certezze attraverso forme di mediazione del divino avrebbero trovato enormi differenze nei racconti.. Mentre i due resoconti direbbero cose analoghe sul fatto che sia Alessandro Magno sia Gesù sono stati influenzati dalla cultura e sulla base delle conoscenze acquisite dall’ambiente o dalla famiglia hanno raggiunto delle “certezze culturali”, la prima differenza a emergere sarebbe che mentre Alessandro cerca continuamente segni per rassicurarsi sulle imprese che deve compiere e consulta oracoli e indovini, Gesù non cerca, ma fornisce segni ad altri. Mentre il Macedone riceve indicazioni divine tramite sogni, questi sono totalmente assenti nella vita di Gesù - e quando ricorrono nei vangeli hanno a che fare con rivelazioni date ad altri (Zaccaria, Maria, Giuseppe, i magi, la moglie di Pilato). Sia Alessandro sia Gesù sono attenti alle manifestazioni divine, ma mentre per il primo queste sono mediate da indovini ed esperti di arti mantiche (forme di divinazione), per il secondo Dio si rivela nella preghiera e senz’altra mediazione. L’unico episodio narrato dei vangeli che vede la comparsa di una mediazione nella forma di una “voce” divina è quello del battesimo di Gesù al Giordano, mentre in quello della trasfigurazione la mediazione avviene tramite una conversazione con Mosè ed Elia. Piuttosto, nella maggioranza dei casi Gesù raggiunge alcune certezze e prende decisioni sulla base delle relazioni con i suoi interlocutori, che possono anche provocarlo a cambiare qualche aspetto del piano che aveva previsto.
Gesù non sogna, non riceve istruzioni o rivelazioni da angeli (ma vedi il caso, a cui si è accennato, di Lc 22,43-44), non cerca segni e non esercita alcuna forma di mantica tipica del giudaismo o delle pratiche religiose del mondo greco. Riceve solo, al suo battesimo, un’istruzione dal cielo, e quindi, nel complesso, fornisce segni ad altri, attraverso le numerose guarigioni, gli esorcismi, e i miracoli che compie. Le cose cambiano per la Chiesa delle origini. Nel racconto del libro degli Atti aumentano le mediazioni divine: visioni, rapimenti, angeli, intervento dello Spirito (che si può manifestare direttamente come a Pentecoste o indirettamente, come nel caso di Filippo); è presente nella chiesa delle origini anche un rituale di mantica per sorteggio (cleromanzia); un altro gruppo di mediazioni, però, come già per Gesù, ha a che fare con una dimensione più orizzontale, data dalla contingenza dell’esperienza ecclesiale, dalle necessità e soprattutto dalle decisioni prese in modo sinodale. La Chiesa decide sulla base di segni, ma soprattutto attraverso un percorso comunionale di discernimento.
Ci potremmo ora domandare cosa ci aspetta scendendo dal monte Tabor. Quello che era il campo di battaglia di Debora e Barak lo è anche per Gesù. Mentre scendono, infatti, incombe di nuovo la memoria di quanto è accaduto al Battista, che era come Elia, ma del quale hanno fatto «quello che hanno voluto» (Mt 17,12). Il presagio di morte diventa un’ulteriore annuncio: «Così anche il Figlio dell’uomo dovrà soffrire per opera loro» (Mt 17,12). Ad attendere Gesù vi è poi, come per Debora e Barak che combatterono contro Sisara, una vera e propria lotta contro un demonio che i discepoli non riescono ad esorcizzare. In tutti e tre i sinottici la storia di questo miracolo segue alla trasfigurazione. In questa occasione, Gesù rivolge un rimprovero alla generazione che non crede, e ai discepoli che hanno poca fede. Con la poca fede non funzionano gli esorcismi, e preghiera e il digiuno vengono in aiuto, come si legge in Mt 17,21 (un versetto dalla tradizione testuale incerta, forse una ripresa da Mc 9,29, dove però non si parla di digiuno): «Questa specie di demoni non si scaccia se non con la preghiera e il digiuno».
Nel trattato talmudico sul digiuno è scritto: «I nostri Maestri ci hanno insegnato: quando una città è circondata da pagani ostili, o minacciata dall’inondazione di un fiume, o quando una nave sta per affondare in mare, o quando qualcuno è braccato da un pagano, o da ladri, o da uno spirito cattivo, si suona l’allarme anche di sabato: per questo si può anche fare un digiuno» (Talmud babilonese, Ta ’anit 22b). Mi domando cosa mi aspetta, ma di qualunque cosa si tratti, non dobbiamo dubitare: il Signore si avvicinerà e sarà con noi. Solo, non si deve abbassare la guardia e si deve sapere bene quali sono le armi adatte per la lotta.
Torniamo ora al testo che ci ha accompagnati all’inizio, e ci soffermiamo su quanto scrive Pietro, ricordando il Tabor: «Gesù ricevette onore e gloria da Dio Padre» (1,17)». Onore e gloria sono comunemente, in greco, una «formula stereotipa di riconoscimento della fama, dignità e reputazione di qualcuno: o in ragione del suo status o in ragione di sue azioni meritorie, o, ancora in ragione di ciò che di materiale o meno gli dà importanza davanti agli altri. Gloria e onore possono essere la sintesi di tutto ciò che è desiderabile per gli esseri umani (Rm 2,7.10) e una cifra della maestà divina (Sal 28,1; 95,7; Gb 37,22; 40,10; 1Tm 1,17)» (M. Nicolaci 78). Aggiungiamo che nel mondo greco, la gloria veniva dalle vittorie in battaglia, e dalla memoria che gli eroi avrebbero lasciato di sé. La gloria, scrive Pietro, il Messia l’ha ricevuta dal Padre. Non avrebbe senso cercarla altrove: nelle cose che facciamo, dagli altri, dai successi o dalle cariche o dal prestigio. Solo da Dio viene la vera gloria, quella che - se pur effimera nello splendore di un momento sul Tabor - prosegue però nella gloria eterna".