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Con la preghiera dei Vespri si è chiusa la seconda giornata di Esercizi Spirituali guidati dal vescovo Marino.
Ripercorriamo la meditazione del vescovo di questa mattina.
"Questi esercizi vogliono partire dalla trasfigurazione di Gesù, per aiutarci nel discernimento che stiamo compiendo a riguardo di una nostra trasformazione continua, e di quella che è auspicata per la Chiesa. Dalla lettura del racconto evangelico, così, passeremo poi a vedere la situazione della nostra missione, alla quale faremo continui riferimenti.
La nostra riflessione parte oggi dalla memoria di Pietro (2Pt 1,16-21). Prima di guardare da vicino il nostro testo, rileggiamo quanto scrive Pietro nella sua Seconda lettera a proposito di quanto accaduto sul monte santo. La sua, infatti, è una delle quattro (o forse cinque, come vedremo dopo) fonti dell’episodio. Pietro sta scrivendo quello che potremmo definire il suo testamento. Dice di essere ormai prossimo all’incontro con Dio, e anche il tono di certe sue affermazioni sulla fine del mondo sembra confermare questo sguardo. Proprio perché si tratta di un testamento, la lettera ha una speciale autorità.
La questione dell’autenticità della lettera è complessa, se già Origene era a conoscenza dei dubbi sull’attribuzione a Pietro. Per San Girolamo la Seconda lettera era diversa dalla prima perché Pietro doveva aver usato un altro segretario. Le posizioni si dividono a riguardo della sua composizione: alcuni ritengono che sia stata scritta alla fine del I sec., inizio del II (ad es. P. Perkins, First and Second Peter, James, and Jude, 160), e sia pseudoepigrafica (cf. G. Marconi, Omelìe e catechesi cristiane del primo secolo, 165; M. Nicolaci, Seconda lettera di Pietro, 37); in minoranza sono coloro che pensano che non si possa facilmente dismettere l’autenticità petrina, e che eventualmente la lettera potrebbe essere stata composta da un discepolo dell’apostolo (The Navarre Bible. The Catholic Letters, 94). Rileggiamo ora la parte corrispondente alla trasfigurazione, in 2Pt 1,16-18:
Infatti, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. 17Egli infatti ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: «Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento». 18Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte.
L’occasione della lettera viene dal fatto che l’autore vuole opporsi a quei cristiani che non credono alla seconda venuta del Signore Gesù, facendo leva sulla morte degli apostoli e al ritardo della parusia. Ma l’autore è anche preoccupato del fatto che il cristianesimo possa dissolversi in una religione paganizzata, in una forma di sincretismo, e così ribadisce l’argomento principale per sostenere la sua tesi: che la parusia sia un fatto vero, lo si capisce dalla differenza tra i miti, le leggende le storie e l’evento della trasfigurazione, perché «la trasfigurazione di Gesù Cristo è la garanzia della dottrina della seconda venuta di Cristo» (The Navarre Bible 104). La logica dell’argomento è semplice: «Se Gesù ha permesso che la sua divinità venisse vista anche solo per un momento, sarà anche capace di manifestarla in pienezza alla fine dei tempi» (The Navarre Bible 105).
A noi interessa soprattutto che qui l’autore abbia una sua particolare memoria dell’evento della trasfigurazione: «non presenta dunque qualcosa di nuovo, ma riproduce ciò che Pietro ha insegnato, evidentemente calandolo nella nuova situazione, in un ambiente del II sec., aperto agli influssi dell’ellenismo» (Marconi, 171). Vi sono però alcune differenze tra il resoconto della trasfigurazione dei sinottici e quello della Seconda lettera di Pietro, che hanno portato qualche esegeta a ritenere che la tradizione a cui si rifà l’autore attinga da una tradizione propria, e non dai sinottici (cf. G.L. Green, Jude and 2 Peter, 224). La prima è che la voce del Padre non viene dalla nube (Mt 17,5; Mc 9,7; Lc 9,35), ma «dalla maestosa gloria» (2Pt 1,17), una perifrasi per dire che viene da Dio stesso. La più significativa però è che nella Seconda lettera di Pietro, mancando l’imperativo “Ascoltatelo” che si trova nel resoconto dei vangeli, la voce è diretta in modo del tutto speciale a Gesù («quando giunse a lui»/«quando gli fu rivolta»; 2Pt 1,17). Senza soffermarci ora sulle citazioni bibliche a cui attinge la frase del Padre, ci concentriamo sul modo in cui si sente chiamato Gesù dal Padre, ovvero figlio: «Questi è il Figlio mio» (2Pt 1,17).
Tra i tanti titoli o modi in cui Gesù viene chiamato, ricordato, venerato negli scritti del Nuovo Testamento (“Cristo”, “Signore”, “Salvatore”, “Redentore”, “Santo di Dio”, “Maestro”, “Figlio di Davide”, “Sposo” ...), “Figlio” è uno dei titoli più importanti - non fosse altro perché lo ripetiamo ogni volta che facciamo il segno della croce, o quando recitiamo il Credo. L’essere figlio di Gesù è ciò che lo caratterizza, al punto che è sulla relazione con il Padre che Gesù viene tentato all’inizio («Se sei Figlio di Dio...»; Mt 4,3) e alla fine («Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce»; Mt 27,40) della sua missione.
E ci soffermiamo ora proprio sul 'sentirsi chiamare figlio'.
Lo è specialmente in una antica omelia giudaico-cristiana come la Lettera agli Ebrei, probabilmente scritta in occasione della caduta del Tempio di Gerusalemme (G. Gelardini, Verhartet Eure Herzen Nicht). In questo scritto, «Gesù [...], dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli, divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato. Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto: Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato? E ancora: Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio?» (Eb 1,3- 5). Commenta un esegeta: «Molti altri titoli sono attribuiti a Gesù in Eb 1,5-14, in Eb 2 e nel resto del trattato, come “Signore” (Kyrios) in 1,10; 2,3 e 13,20, ma il tenore di 1,1-4 lascia supporre che “Figlio” sia il nome unico e nuovo, e che quel nome abbracci e comprenda tutti gli altri» (C. Marcheselli-Casale, Lettera agli Ebrei, 111).
La voce che proclama Gesù come figlio, già udita al battesimo (Mt 3,17; «Ed ecco una voce dal cielo che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento”»), ora sul Tabor, secondo i sinottici, si rivolge di nuovo ai discepoli: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo» (Mt 17,5). Essere figlio di Dio è il destino di ogni uomo, e la consapevolezza della figliolanza, e il vivere come tale, può cambiare la realtà intera, come anche il creato. Così scrive papa Francesco nel suo Messaggio per la Quaresima 2019: «Se l’uomo vive da figlio di Dio, se vive da persona redenta, che si lascia guidare dallo Spirito Santo (cf. Rm 8,14) e sa riconoscere e mettere in pratica la legge di Dio, cominciando da quella inscritta nel suo cuore e nella natura, egli fa del bene anche al creato, cooperando alla sua redenzione».
Un ulteriore dettaglio che viene dalla descrizione della Trasfigurazione di Gesù nella Seconda lettera di Pietro. La montagna di cui parla Pietro è la montagna santa, santa perché lì è avvenuta una teofania, come già nel Primo Testamento Sion è chiamato il “monte santo” perché Dio si è rivelato sopra di esso (Sal 2,6; Is 11,9). Per Pietro quel monte santo è ora il Tabor, per altri è Gerusalemme; per noi qualsiasi monte può essere quello dell’incontro con Dio. Terminiamo in questo modo la nostra riflessione, salendo su questa montagna santa anche noi. Percorriamo questo tratto sul monte, e vedremo cosa accade e ci riserva il buon Dio. Intanto però possiamo fare come Pietro, e ricordare.
Ricordare quando siamo stati con lui
Come si è già accennato, nella Lettera di Pietro la memoria è essenziale, e infatti «compito di Pietro è quello di tener desta l’attenzione attraverso il ricordo [...]. Lo scrittore sacro pone tutte le migliori intenzioni nella particolare forma che intende dare al suo lavoro; infatti la motivazione del testamento è proprio la preoccupazione che un tesoro di esperienze non venga perduto nelle generazioni future, proprio ora che alcuni problemi cruciali sono posti sul tappeto» (Marconi, 171). Anche noi in questi giorni possiamo fare memoria delle volte che siamo stati con Gesù, e se ci spostiamo al piano pastorale è necessario che tale memoria venga ribadita, per mostrare come nella Chiesa non si raccontano favole, ma fatti veri. Se non potremo dire «Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte» (1,18), non ci sarà futuro per la Chiesa.
Dalla memoria del passato, si dovrà poi passare al presente. Si è notato che a partire dal v. 19 del primo capitolo della Seconda lettera di Pietro, i verbi al passato (aoristo: «ricevette», «gli fu rivolta», «l’abbiamo udita») lasciano il passo al tempo presente («abbiamo», «fate bene», «a rivolgervi», «riconoscendo»), per dire che l’annuncio è fondato sulla memoria storica di Gesù, non su favole, ma poiché «il passato della venuta storica di Gesù non è più direttamente accessibile ai credenti» (Nicolaci, 80), ora ciò che sostiene la fede è la Parola della Scrittura: Abbiamo anche, solidissima, la parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e non sorga nei vostri cuori la stella del mattino. 20Sappiate anzitutto questo: nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione, 21poiché non da volontà umana è mai venuta una profezia, ma mossi da Spirito Santo parlarono alcuni uomini da parte di Dio (2Pt 1,19-21).