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Questa quinta giornata di meditazione si è conclusa con il momento di preghiera guidato da papa Francesco e la sua benedizione Urbi et Orbi. La parole del Santo Padre hanno ridato speranza ai cuori e hanno allargato l'orizzonte di questo difficile presente.
La giornata si è conclusa con il successore di Pietro. Si era aperta con la meditazione del vescovo Marino incentrata su un altro momento della narrazione della Trasfigurazione, un momento che vede protagonista Pietro: «È bello per noi essere qui» (Mc 9,5), dice Pietro sul Tabor
"Con questa meditazione vogliamo descrivere i sentimenti di Pietro, e ripercorrere la strada che l’ha portato al Tabor. Per far questo dobbiamo però tenere insieme i vangeli canonici, prendendo in considerazione in particolare un testo esclusivamente lucano, quello riguardante la sua vocazione al cap. 5, e che dice alcuni tratti di Pietro.
Questi tratti forse sono già visibili anche nel vangelo più antico, quello di Marco. Lì Simon Pietro, che viene chiamato mentre è al lavoro (1,16), accoglie Gesù in casa sua (1,29) è nominato nella lista dei Dodici (3,13), viene coinvolto con Giacomo e Giovanni per la rianimazione della figlia del capo della sinagoga (5,37), e ha finalmente un ruolo di primo a Cesarea di Filippo, con la sua confessione (8,29), ancor prima di essere definito “Satana” a causa della sua obiezione al primo annuncio della passione (8,33), aveva avuto un atteggiamento captativo nei confronti di Gesù, quando gli dice «Tutti ti cercano» (1,37) mentre stava a pregare in un luogo solitario, sulla riva del lago di Galilea. A tal proposito, qualcuno ha infatti notato la forza del verbo “cercare”, e la sfumatura di significato che veicola. La frase «“tutti ti cercano”, sotto le spoglie innocenti di un’informazione relativa ad “altri” suona in realtà come parola pressante [...], così parafrasabile: “Torna con noi a Cafarnao, perché tutti (noi compresi) giustamente ti pretendono per concludere le guarigioni iniziate”. Si tratta di una ricerca definibile come pretesa captativa» (R. Vignolo, cit. da G. Michelini, Un giorno con Gesù). Anche di Pietro allora, come già fatto per Mosè ed Elia, si possono mettere in rilievo i chiaro-scuri, in particolare quelli che sono delineati da due situazioni: il suo essere peccatore, secondo quanto si legge in Lc 5, e il suo rappresentare Satana, di cui si è già detto. Se stiamo invece al racconto di Matteo, lì il ruolo di Pietro è peculiare. La sua figura - oltre a quanto Matteo riprende da Marco - emerge in modo molto chiaro in Mt 14,28-31, una scena solo matteana, dove l’apostolo è descritto mentre cerca di camminare sulle acque. Lì osa addirittura quello che il Maestro non gli stava chiedendo di fare, e se inizialmente mostra il coraggio della sua fede, poi è costretto a sperimentare il fallimento: Gesù, che lo afferra, gli dirà «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?» (14,31). Pietro avrebbe piuttosto dovuto lasciar salire Gesù sulla barca, perché appena questo accade, il vento cessa (14,32). Solo Gesù, infatti, può camminare sul mare, perché lui è il Dio-con-noi (cf. 1,23; 28,20), che può camminare «sulle onde del mare», come è scritto in Gb 9,8 a riguardo di Dio. Gesù è come più di Mosè ed Elia, che prima di lui avevano attraversato delle acque (cf. Es 14,21; 2Re 2,8), ma a guardar bene, il primo sull’asciutto e l’altro sopra il suo mantello: solo Gesù riesce a camminare sul mare, come Dio. Gesù può come Giona superare l’ostacolo del mare e della morte e ritornare dai suoi discepoli.
In ogni caso, Pietro è al centro dell’interesse di Matteo: è il primo a essere nominato (4,18), così come è il primo nella lista dei Dodici (10,2). Poi, soprattutto nella sezione 13,54-17,27, quella che precede il discorso ecclesiale del cap. 18, Pietro diventa non solo il responsabile della Chiesa, ma anche l’interlocutore privilegiato di Gesù, al quale chiede spiegazioni e delucidazioni. Dopo la sua proclamazione di Gesù Messia si palesa invece anche il volto fragile del discepolo: essere il primo non gli impedisce di svolgere addirittura il ruolo di Satana (cf. 16,23). Nonostante questo rimprovero, continuerà a svolgere un suo ruolo di mediazione e di rappresentanza.
Il racconto della vocazione di Simone nel vangelo di Luca procede allo stesso modo di Mc 1,16-20, da cui attinge, ma solo fino ad un certo punto. Il Terzo vangelo infatti compie alcuni aggiustamenti importanti e poi aggiunge una scena tutta sua, che ritroviamo in una diversa versione soltanto nel vangelo di Giovanni, al cap. 21, dove però è il Risorto a chiamare Pietro: si tratta del famoso episodio della pesca miracolosa.
Intanto notiamo subito che, rispetto alla scena appena precedente, riguardante la proclamazione del Giubileo da parte di Gesù nella sinagoga di Nazaret (Lc 4,14-30), qui si racconta di qualcuno che segue il Signore. A Nazaret Gesù non viene preso sul serio, è rifiutato, ma ora c’è invece chi rimane colpito dalla sua persona, tanto da lasciare tutto e seguirlo: Simone. È a partire dal nostro episodio che Luca si concentra su di lui, inaugurando quella stima particolare che l’evangelista ha per Pietro, e che di sicuro eredita dalla comunità primitiva. Si noti che se in Marco e in Matteo la formula di vocazione è al plurale e coinvolge i primi discepoli, «Venite dietro a me, e vi farò pescatori di uomini», in Luca la chiamata è alla seconda persona singolare: «D’ora in poi saranno uomini quelli che tu prenderai» (5,10). Ma è di tutta la scena, non solo della conclusione, che Simone è protagonista, con i suoi sentimenti e con la sua fede.
Nel racconto della pesca miracolosa sono presenti molti elementi che ne fanno una vera e propria catechesi sulla fede del discepolo e, possiamo dire, del pastore. Secondo Carlo Maria Martini, che dedica una bella meditazione alla pericope (L’evangelizzatore in san Luca), abbiamo a che fare con un episodio nel quale appare «come Cristo è Colui che ribalta le situazioni umane chiuse e perdute». Per Martini il brano è costruito attorno a tre salti di fiducia che Simone è invitato a compiere, e che portano a tre rovesciamenti della realtà.
Il primo salto nella fede è quello di gettare le reti quando tutto sembra inutile. L’obiezione di Pietro all’invito del Maestro, «abbiamo faticato tutta la notte» è indice di una grande delusione, e forse potrebbe essere resa in italiano con un senso più forte. Il verbo che Luca usa è ben noto nella Bibbia, e viene tradotto, nei Salmi, con essere stremato (ad es. per i lamenti; Sal 6,7), essere sfinito (dal gridare a Dio; Sal 69,4); è il faticare invano dei costruttori se «Dio non edifica la casa» (Sal 127,1). In quello spazio di delusione agisce Dio. Proprio nel momento del limite, quando non c’è più nulla da fare. Come quando gli Ebrei hanno di fronte il mare, e alle spalle gli egiziani. Forse è un passo necessario per chi vuole seguire Gesù: riconoscere la propria incapacità, fermarsi e dire: da solo non sono riuscito a far nulla. A questo punto, nella dolorosa esperienza che agli occhi del mondo è il fallimento da cui non si esce più, interviene la potente parola di Gesù: «sulla tua parola calerò le reti» (Lc 5,4). È il primo cambiamento di realtà: dalla delusione al gesto fiducioso.
Quale sarà la ragione della reazione di Simon Pietro «allontanati da me, perché sono un peccatore» (5,8)? Non bastava a Luca sottolineare lo stupore del discepolo (v. 9)? Quale peccato ha commesso Simone? Qualcuno pensa che ci sia a questo punto una specie di interferenza tra il nostro racconto e il brano parallelo della pesca miracolosa in Gv 21, dove però - abbiamo accennato sopra - il dialogo si svolge con il Risorto: se questo fosse vero, le parole di Simone avrebbero a che fare con il suo pentimento per aver rinnegato Gesù. Certamente non è, sul piano morale, la confessione di una vita peccaminosa; l’affermazione di Simone è da leggere piuttosto alla luce di quanto è accaduto, e cioè il miracolo della pesca. «Qualcosa è avvenuto. La potenza di Gesù fa risaltare la peccaminosità di Pietro: forse Pietro non era tra i più grandi peccatori di Cafarnao, però certamente era anche lui un uomo che, messo di fronte alla potenza, alla santità di Dio, sentiva che molte cose della sua vita non andavano» (Martini). La realtà si è di nuovo rovesciata. Simone è di fronte al Santo di Dio e riconosce la propria creaturalità. In questo Pietro è come Mosè (quando si chiede «chi sono io per andare dal faraone?»; Es 3,11) o come Isaia, che confessa di essere un «uomo dalle labbra impure» (Is 6,5): tutti e due, però, vengono raggiunti dalla potenza di Dio.
Ma ciò che colpisce è l’atteggiamento di Gesù, di grande delicatezza. Il Signore non insiste sull’essere “peccatore” del suo discepolo. Vuol dire che quella situazione di peccato che Simone riconosce e per cui chiede perdono non dice tutta la sua vita: Simone non è il suo peccato, anche se, lo sappiamo, la sua debolezza ancora si manifesterà, quando rinnegherà il Signore e, prima ancora, quando prenderà le veci di Satana. Ma Gesù non gli dice «dunque, Pietro, tu vuoi seguirmi; ricordati però che sei un peccatore, quindi per prima cosa devi pentirti veramente dei tuoi peccati, purificarti, perché altrimenti non sei degno di seguirmi. Pietro si aspettava che il Signore lo confermasse nel suo sentimento di penitenza e invece Gesù dice: “Non temere, da ora, da questo momento sarai pescatore di uomini”» (Martini).
Il Pietro che sta sul Tabor, allora, è un uomo che come Mosè ed Elia prima di lui presenta dei tratti di fragilità, di mancanza di fede, che vuole in qualche occasione tirare Gesù dalla sua parte, ma che non è mai rigettato dal Maestro. Per questo, Gesù lo porta con sé sul Tabor, perché ha più bisogno degli altri di essere educato, lui che avrà maggiori responsabilità ecclesiali.
Pietro finalmente arriva al Tabor, con la biografia di cui abbiamo velocemente trattato sopra. Anche lì mostra una certa iniziativa, e durante la visione pronuncia alcune frasi che possiamo suddividere in due parti. Anzitutto, l’esclamazione estatica: Mt 17,4: «Signore, è bello per noi essere qui!»; Mc 9,5: «Rabbi, è bello per noi essere qui»; Lc 9,33: «Maestro, è bello per noi essere qui». Pietro ha ragione: stare con Gesù, vedere la sua gloria, è bello. Entrare alla presenza del Padre, che si lascia percepire nella nube e con la sua voce, come al Sinai, è bello e terrificante. Dov’è il “bello”, il “buono” (kalos), se non in Dio, in Gesù? Vedere la gloria di Dio è l’esperienza che Pietro non si potrà mai più dimenticare, e che rimarrà nella sua memoria anche quando sarà anziano e scriverà (o lo farà chi per lui...) la sua Seconda lettera ricordando «quando stavamo con lui sul monte santo» (2Pt 1,18).
Vi è però un’altra bellezza che possiamo intravvedere, che è quella di Gesù nella sua umanità. Il volto che da lì a poco verrà mostrato dal Messia sofferente sarà totalmente diverso, quello di un uomo che non si vuole vedere in faccia, come il Servo di Isaia. In quel volto sofferente vi è tutta l’umanità ferita dalle prove, dalle ingiustizie, dai soprusi, dalle violenze di ogni genere. Ora, invece, Gesù può mostrare almeno per qualche istante qual è il volto dell’uomo che Dio aveva pensato, e che è a volte è nascosto nei volti sfigurati dell’umanità. Ci viene in aiuto l’evangelista Matteo, che descrive il volto di Gesù paragonandolo al sole, e le vesti nella loro lucentezza, distinguendosi così dagli altri vangeli per alcuni elementi che si spiegano a partire dalla tradizione rabbinica. Il volto di Gesù è paragonabile a quello trasfigurato di Mosè sul Sinai, che scendeva dal monte senza sapere che la pelle del suo viso era raggiante (Es 34,29-35), e che però doveva tenere velato. Qui però c’è una differenza rispetto a Mosè: mentre la realtà più profonda di Gesù è “velata” per tutto il vangelo - e verrà ancor più nascosta dalla sua passione - questa è l’unica volta che quel velo è, per un breve tempo, tolto, e qualcosa della sua gloria trascendente è visibile ai discepoli.
Il dettaglio del vestito luminoso di Gesù è ancor più interessante, perché per Matteo esso non è semplicemente - come per Mc 9,3 - bianco in modo straordinario: nel Primo vangelo le vesti di Gesù sono «come la luce» (17,2). Nelle fonti giudaiche antiche si legge che la prima conseguenza della caduta di Adamo ed Eva fu la nudità. I loro corpi, nel loro stato originario, non erano “nudi”, ma avvolti da una nube di gloria o di un manto di luce; appena violato il comando di Dio questa veste cadde, ed essi provarono vergogna. Giocando sul fatto che in ebraico «pelle» e «luce» si scrivono quasi allo stesso modo, l’interpretazione rabbinica attestata già prima di Cristo, nei Targumim (Targum di Gerusalemme [Pseudo donata] Gen 3,7.21) dice che Adamo ed Eva erano trasparenti l’uno all’altro. Questa trasparenza dopo il peccato fece loro perdere il vestito di luce che si trasformò in pelle. Ecco perché nelle fonti rabbiniche si credeva che il Messia, quando si sarebbe manifestato, avrebbe rivestito di luce il vestito di Adamo.
Ne diviene che Gesù non solo è il Figlio del Padre dall’eternità, ma in lui sul Tabor vi è la bellezza originaria di Adamo, il figlio amato creato da Dio e che gli fece esclamare che era cosa «molto buona» (Gen 1,31). L’espressione “il figlio amato” della voce, così carica di richiami biblici (alla storia di Isacco, «figlio amato», di Gen 22,2, e a quella del popolo di Israele, «figlio» per eccellenza di Yhwh), rimanda così anche all’Uomo, al quale Gesù trasfigurato ha fatto ritrovare la sua originaria trasparenza. La bellezza di ogni uomo si ritrova nella bellezza che Gesù emana dal Tabor.
Il seguito delle parole di Pietro ha avuto molte interpretazioni, a partire dal modo in cui vengono commentate da Marco e Luca: Matteo non le commenta, probabilmente per non abbassare la figura di Pietro, mentre Marco e Luca ne danno due spiegazioni simili, ma differenti per alcuni punti.
Mentre per Marco Pietro non sapeva cosa dire perché erano spaventati (Mc 9,6), Pietro, invece, secondo Luca, semplicemente non sa quello che dice (Lc 9,33). Diverse sono le interpretazioni antiche delle parole di Pietro. Tra queste ricordiamo quella di Origene, per il quale si avrebbe qui un ulteriore tentativo, dopo quello a Cesarea di Filippo, «di fermare Gesù nel suo cammino verso la passione, quasi una replica del suo “Dio te ne scampi. Signore!”, pronunciato poco prima (cf. Mt 16,22).
Sant’Agostino ne ha dato una spiegazione diversa, forse più plausibile» - ritiene Raniero Cantalamessa (Il mistero della Trasfigurazione) - ovvero, «per lui, Pietro ha gustato le gioie della contemplazione e vorrebbe non dover più tornare alle preoccupazioni e alla confusione che lo attende al piano» (Cantalamessa, 37). Continua Cantalamessa, in una meditazione dettata alla Casa Pontificia: «Agostino ha visto anticipati, in Pietro, i sentimenti, per non dire la tentazione, che prova un vescovo che medita su questo episodio evangelico. In questo, le sue parole sono particolarmente attuali e pertinenti» (p. 38). Ecco il Sermone 78 di Agostino:
«Pietro era infastidito della folla, aveva trovato la solitudine sul monte; lì aveva Cristo come cibo dell’anima. Perché avrebbe dovuto scendere per tornare alle fatiche e ai dolori, mentre lassù era pieno di sentimenti di santo amore verso Dio e che gli ispiravano perciò una santa condotta? [...] Scendi, Pietro; desideravi riposare sul monte: scendi, predica la parola di Dio, rimprovera, esorta, incoraggia usando tutta la tua pazienza e la tua capacità di insegnare. Lavora, affaticati molto, accetta anche sofferenza e supplizi. [...] Nell’elogio della carità si dice che essa “non cerca il proprio interesse”. [...] Questa felicità Cristo te la riserva dopo morte, o Pietro. Ora invece egli stesso ti dice: “Discendi ad affaticarti sulla terra, a servire sulla terra, ad essere disprezzato, ad essere crocifisso sulla terra”» (Sermone 78,3.6, trad. da Cantalamessa, p. 38-39).
Oltre alla reazione scomposta di Pietro, o alla paura, ecco che Luca nota che Pietro e gli altri due discepoli erano oppressi dal sonno. Si tratta dello stesso sonno incubatorio, il torpore, di Adamo (Gen 2,21), di Abramo (15,12), e che opprimerà i discepoli nel Getsemani: quando passa Dio, non si può essere totalmente consapevoli. O ci si copre il volto, come Mosè ed Elia, o si è presi dal sonno.
Abbiamo già sottolineato l’importanza del titolo con cui Gesù è chiamato dal Padre, il “Figlio”, e quindi ci concentriamo qui sulla visione e sulla voce. Ciò che ha consolato i discepoli sul monte è stato il poter vedere cose meravigliose. Per diverse volte in questo episodio ricorre il verbo “vedere” (al passivo, visti = apparsi: 9,31; all’attivo: 9,31.36; all’imperativo, al v. 30: “ed ecco”, in gr.). Ma - terminata la visione - ciò che resta, nella nube, è solo una voce.
Ci dice della situazione in cui noi ora siamo: quella dei credenti, beati anche se non possono più vedere il Signore, come dice Gesù nel Quarto vangelo, «beati quelli che non hanno visto e hanno creduto» (Gv 20,29). Se ora si vede ancora il Signore, è solo in un modo “confuso”, dove la sua presenza appare, ma non chiaramente, come per i discepoli di Emmaus. Può essere intravisto nei poveri, nei piccoli, nel prossimo. Nei sacramenti, dove - come scrive san Leone Magno - «è passato ciò che era allora visibile nel nostro Salvatore» (Sermones 74,2). Non lo possiamo vedere: i credenti invece lo devono ascoltare, nella sua Parola, che grazie alla Chiesa ancora ci viene trasmessa.
Se continuiamo a seguire la scena del Tabor, si scopre che diversamente da Marco e Luca, Matteo insiste sulla paura di Pietro, Giacomo e Giovanni, che li porta a cadere a terra. Anche in Mc 9,6 si accenna a una reazione dei tre spettatori, ma Matteo la amplifica e la rilegge secondo un ulteriore contesto, che riguarda un’altra esperienza biblica di visione, quella narrata in Dan 10. Per Matteo, però, diversamente da Marco, la paura non nasce dall’aver visto qualcosa, ma dall’aver ascoltato la voce di Dio (quella già udita nel battesimo di Gesù: cf. 3,17), che ammonisce e invita Pietro a fidarsi del maestro. Si viene così ricondotti ancora una volta al momento in cui Dio parla dalla montagna del Sinai, e il popolo, che ha paura della sua voce, chiede di non udirla più (Es 20,18- 19: «Tutto il popolo vedeva i tuoni, i lampi, il suono di tromba e il monte fumante: il popolo ebbe paura e si tenne a distanza. Dissero a Mosè: “Parla tu con noi e ti ascolteremo, ma non ci parli Dio, per non morire”»): mentre la voce di Yhwh era temuta, si poteva però ascoltare quella di Mosè che, da mediatore, parlava per conto suo. Allo stesso modo, anche ora Pietro e gli altri due discepoli hanno paura della voce di Dio, ma il Figlio amato si può ascoltare, soprattutto se è lui ad avvicinarsi ai suoi. Leggiamo in Mt 19,17-7, che «All’udire ciò [la voce], i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: “Alzatevi e non temete”». Il verbo «avvicinarsi», prosérchomai, caratterizza non solo il lessico di Matteo (cinquantadue occorrenze contro le dieci di Luca e le cinque di Marco), ma anche la sua teologia. È significativo, tra l’altro, che per sua ultima occorrenza nel vangelo, il verbo sia impiegato per dire che è il Risorto, questa volta (come già dopo la trasfigurazione), ad avvicinarsi ai discepoli. Il verbo compare in Matteo la maggior parte delle volte per esprimere l’azione di persone che si avvicinano a Gesù per rivolgergli qualche domanda o per cercare una guarigione; viene usato dieci volte per gli avversari (scribi, farisei, sadducei, sommi sacerdoti), che tuttavia lo riconoscono come un maestro autorevole.
All’inizio del vangelo, Gesù viene avvicinato da potenze soprannaturali, sempre nella scena della prova: in 4,3 dal diavolo e in 4,11 dagli angeli. Per due volte, il verbo è usato per dire che Gesù si avvicina ai discepoli: in 28,18, e nell’episodio della trasfigurazione (17,7). Dalle ricerche di Gastone Boscolo sul verbo nel vangelo di Matteo, apprendiamo che esso per l’evangelista «costituisce un continuo richiamo e una continua attualizzazione dell’annuncio iniziale del vangelo: Gesù è il Dio con noi (1,23). In Gesù, Dio si rende presente e si affianca all’uomo afflitto dall’ignoranza, dalla malattia, dalla sofferenza, dal peccato. Nei racconti di miracolo, nei dialoghi con i discepoli, negli incontri con le persone che si portano a Gesù, negli scontri con gli avversari prosérchomai costituisce un rimando continuo all’annuncio iniziale, e nello stesso tempo diviene ponte di collegamento con la promessa finale: “io sono con voi tutti i giorni” (28,20). Mediante questo verbo Matteo ricorda, richiama e ribadisce continuamente la presenza in Gesù dell’’Emmanuele, del Dio con noi». Avvicinandosi ai discepoli ed esortandoli a non temere, Gesù fa un’altra cosa. Lui, che confortato da Mosè ed Elia e sostenuto dal Padre nel suo progetto di andare a Gerusalemme, e che ha davanti a sé dei discepoli fragili, in particolare Pietro, non insiste nel rimproverare coloro che non hanno ancora capito: in un gesto di prossimità, li tocca e li incoraggia. Insiste però su quanto aveva annunciato sei giorni prima, e come un buon maestro, lo ripete: parla ancora della sua morte e della sua risurrezione. Questa volta, Pietro non dice nulla.
Come notava Martini, a proposito della vocazione di Pietro di Lc 5 (la “pesca miracolosa”), ancora una volta Gesù è più misericordioso e comprensivo di quanto forse lo saremmo stati noi. Pietro, che aveva chiesto a Gesù di allontanarsi da lui, peccatore (Lc 5,8), vede invece Gesù avvicinarsi a lui per confermarlo.
Confrontiamoci con i sentimenti di Pietro
Gustiamo interiormente “l’agire di Gesù” verso Pietro
Pronunciamo la confessione di fede di Pietro …
Pronunciamo le parole “colme di fede” di Pietro …
Lasciamoci “toccare da Gesù”…
Lasciamoci sanar da Gesù ….