Il Carnevale è bello se si impara a gettare le maschere

In occasione del "martedì grasso", una riflessione di don Marco Napolitano, parroco di San Clemente in Casamarciano e assistente del settore giovani dell'Azione cattolica diocesana di Nola

di don Marco Napolitano

Che cosa ha a che fare il Carnevale con lo spirito cristiano? Apparentemente nulla, visto che il periodo carnevalesco trae origine da riti e usanze pagane e non fa parte del calendario liturgico della Chiesa. Non significa però che questo tempo festoso e festivo debba superficialmente essere bollato come anti-cristiano o essere condannato alla stregua di Halloween, che ha implicazioni ben più eterogenee (ma anche quelle andrebbero indagate e comprese nella loro complessità). Della contiguità tra il Carnevale e il cristianesimo ha parlato con autorevolezza l’allora cardinal Ratzinger, con la sua solita finezza analitica e sistematica. Lo ha fatto con intelligenza sostenendo la sua riflessione con il celebre passo del Qoelet "C’è un tempo per piangere e un tempo per ridere…" (Qo 3,4) e concludendo che «anche per il cristiano non è sempre allo stesso modo tempo di penitenza. C’è anche un tempo per ridere. […]. Per questo noi cristiani non lottiamo contro, ma a favore dell’allegria” (J. Ratzinger, Speranza del grano di senape, 1974)

In questo piccolo contributo vorrei soffermarmi su un paio di elementi che sono offerti alla riflessione credente anche in un periodo apparentemente solo “pagano” come il carnevale.

Caratteristica del Carnevale sono innanzitutto le sue maschere, i suoi travestimenti: spesso i nostri bimbi amano indossare i panni dei loro super-eroi, o di personaggi di una certa importanza, di cui ammirano le azioni. Principi, regine, comandanti, personaggi dello spettacolo e dei film inondano le nostre strade e si divertono tra di loro. Un retaggio che viene dalla festa latina dei Saturnalia, durante i quali l’ordine sociale era temporaneamente sovvertito e gli schiavi diventavano per un momento uomini liberi. È un momento in cui, anche per poco, le distanze si annullano e ciò che ci sembra troppo grande e impensabile da raggiungere diviene qualcosa alla nostra portata. Di ciò che normalmente suscita timore o reverenza si può anche ridere (senza ovviamente burlarsene in maniera crudele o violenta).

Non vorrei scomodare imprudentemente la Sacra Scrittura, ma questa gioia ricorda l’esultanza di Paolo, quando nella prima lettera ai Corinzi afferma: “Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio” (1Cor 3,22–23). Paolo esprime la gioia di sapere che, se stiamo dalla parte di Cristo, niente è troppo lontano o irraggiungibile, ma tutto ci è messo nelle mani. Una gioia che, ovviamente, va costruita giorno per giorno, incanalata in progetti di bene e di fraternità. Una gioia che deve, con il tempo e con la compagnia giusta, acquistare il volto del Salvatore, ma che, una volta all’anno può e deve esplodere anche nella maniera carnevalesca un po’ scomposta. Il cuore dell’uomo, anche non credente, spera in un riavvicinamento delle distanze che creano differenze dolorose e talvolta incomprensibili. Come simbolicamente una volta all’anno principesse e ninja, soldati e regine, servette e imperatori possono danzare insieme, così la speranza credente ci dice che “il lupo dimorerà insieme con l’agnello; il leopardo si sdraierà accanto al capretto” (Is 11,6).

Questa riflessione si associa strettamente alla seconda, che è ispirata dallo stretto legame che c’è tra il Carnevale e il periodo della Quaresima immediatamente seguente (anche l’etimologia stessa della festa fa riferimento al digiuno quaresimale del carnem levare).

A volte le maschere che indossiamo, non solo a Carnevale, servono a celare la nostra vera identità, a coprire certe fragilità, certe imperfezioni, certe difficoltà che ci sembrano impresentabili o non in linea con la persona che vorremmo essere. La Quaresima viene anche per invitarci a “togliere le maschere” (molto efficacemente nel Vangelo del Mercoledì delle Ceneri Gesù stesso invita i suoi interlocutori a non essere “ipocriti”, una parola che nel suo etimo fa riferimento agli attori che, nel teatro greco-romano indossavano appunto delle maschere). È bello e nobile desiderare la propria crescita umana, a livello personale e sociale, ma ciò non avverrà pienamente senza il coinvolgimento di tutto ciò che siamo di bello e di fragile, di propulsivo e di faticoso. Non avverrà celandoci, ma rivelandoci in pienezza. Questo simbolismo sta dietro una celebrazione ebraica “parente” del nostro Carnevale, la festa di Purim, che pure implica, in diverse parti del mondo, che i bimbi si mascherino dai protagonisti della festa. Alla base di Purim, infatti, c’è la storia della regina Ester, che deve nascondere la sua identità ebraica alla corte del re persiano Assuero. Spinta da una minaccia di sterminio del suo popolo, essa si rivela al Re per difendere i diritti minacciati degli ebrei. Proprio questa svolta non solo salva il popolo ebraico, ma aumenta la dignità di Ester: ella è pienamente regina non nascondendo, ma svelando pienamente tutti gli aspetti della propria persona. La sua regalità non è più una maschera, ma un servizio; non è un modo per nascondersi, ma per contribuire alla salvezza di coloro che le appartengono.

Allora ben venga il Carnevale, con le sue risate e le sue maschere; ben venga a farci sorridere di noi stessi, a non farci prendere troppo sul serio. Serva anche a ricordarci però, che la nostra gioia piena non passa per il nasconderci, ma per il rivelarci. Non basta immaginare e fingere un ideale irrealizzabile, ma bisogna, dal giorno dopo in poi, impegnarsi a far coincidere il sogno con la realtà, che passa per la verità di noi, complessa sì, ma “smascherata” e umanizzata.





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