Domenico di Guzman, il santo «in sinodo» con Matteo e Paolo

In occassione della memoria liturgica del santo fondatore dell'Ordine dei predicatori, la riflessione del priore e rettore del Santuario di Madonna dell'Arco, fr. Gianpaolo Pagano.

di fr. Gianpaolo Pagano Op*

Negli Atti del processo per la sua canonizzazione avvenuta per opera di Papa Gregorio IX il 13 luglio 1234 nella Cattedrale di Santa Maria Assunta di Rieti, si legge che San Domenico nei suoi viaggi non mancava di portare con sé un bastone, il vangelo di Matteo e le lettere di San Paolo e che meditava così lungamente queste ultime da arrivare a saperle quasi a memoria.

Come interpretare questa selezione operata dal fondatore dell’ordine dei predicatori?

Sullo spiccato imprinting paolino che caratterizza il carisma apostolico di Domenico non ci sono dubbi. Associato eccezionalmente al ministero degli apostoli, Paolo attribuisce il suo essere apostolo a Dio stesso che lo ha chiamato (1Ts 2,7; 1Cor 1,1; 2Cor 1,1; Gal 1,1 e Rm 1,1) e più volte si sente spinto a rivendicare questa prerogativa perché Dio gli ha rivelato suo Figlio (Gal 1,5-16) e perché ha visto il Signore risorto (1Cor 9,1) che a lui è apparso come agli altri apostoli (1Cor 15,8).

Tuttavia non si esime dal sottoporre la sua chiamata e il suo riconoscimento come “apostolo” all’autorità di Pietro (Gal 1,18) e di coloro che erano apostoli prima di lui, proprio come Domenico che raggiunse l’approvazione del suo ordine apostolico da parte di papa Onorio III, il 22 dicembre 1216, al termine di un lungo itinerario interiore iniziato nel 1203 allorquando si sentì investito della missione di apostolo insieme al suo vescovo Diego d’Acabes e avvertì l’urgenza di annunciare la vera dottrina evangelica prima ai cumani e poi alle popolazioni infestate dalle eresie di catari e albigesi.

Rivendicando la natura apostolica del suo ordine Domenico intendeva non solo rinvestire del carisma della predicazione la sua azione e quella dei suoi compagni, abilitati in virtù dell’approvazione pontificia al pari dei vescovi all’ufficio del Verbo (cosa a quei tempi assolutamente nuova), ma anche riproporre il modello apostolico nella forma di vita associata che egli indicò ai suoi frati mediante la condivisione non solo degli ideali ma anche dei beni materiali.

Anche in questo Paolo fu suo modello, non solo perché fondatore di comunità cristiane ma anche in quanto loro indefesso animatore fino alla morte. Nelle tredici lettere a lui attribuite l’apostolo scrive alle varie comunità per rispondere a quesiti che gli inviavano, per chiarire problemi allarmanti di vita cristiana di cui aveva notizie e per educarle allo stile del vangelo di Gesù, radicato in quell’amore che è capace di generare comunione. Da qui l’importanza di imparare a memoria le lettere di Paolo da parte di Domenico: non si tratta solo di dottrina, c’è di più, c’è da creare comunione e comunità, modellare anime a vivere la vita nuova in Cristo, insieme.

E perché Domenico preferiva portare con sé il vangelo di Matteo piuttosto che gli altri tre?

Anche qui c’entra la comunità, il desiderio di insegnare a costruire ponti e ad abbattere muri. La comunità matteana viveva tensioni e fatiche a vivere insieme. A maggioranza giudaica sperimentava la difficoltà di far convivere le antiche promesse di Israele con l’ingresso dei gentili nel perimetro della salvezza. Il celebre discorso della montagna (Mt 5-7) getta le fondamenta di una nuova realtà, la nuova chiesa di Cristo che si edifica attraverso la nuova legge promulgata dall’Altissimo, quella della carità che dona senza misura, che perdona e accoglie tutti. Dei cinque discorsi del vangelo di Matteo il più innovativo è senza dubbio il quarto, il discorso ecclesiologico (Mt 18,1-35), anch’esso dedicato a cosa vuol dire “fare comunitá”. Il Cristo indica poche cose ma essenziali: bisogna iniziare a diventare bambini e a farsi piccoli (Mt 18,3), iniziare da sé stessi a tagliarsi mani, piedi e occhi (Mt 18,8-9) per generare quel “noi” tanto desiderato, poi avere il coraggio di ammonire il fratello che sbaglia (Mt 18,15) e sopratutto bisogna essere disposti a perdonare fino a settanta volte sette chi procura un’offesa (Mt 18,22).

Il vangelo di Matteo fu particolarmente amato anche da san Tommaso d’Aquino (1225-1274) dal momento che fu l’unico dei quattro vangeli che egli commentò nella sua vita. Non stupisce che il filosofo e teologo della perfetta sintesi tra il divino e l’umano, tra il mondo della razionalità e il mondo della fede, abbia voluto commentare il vangelo dell’incontro che invita ad accostarsi con fiducia e verità all’altro nella convinzione che tutti provengono dall’unica sorgente di ogni verità, il Logos divino, che opera sia nell’ambito della creazione che in quello della redenzione e che ha parlato e operato nella prima come nella nuova alleanza.

Ma perché il Santo mentre era “in sinodo” e non si separava da Matteo e Paolo, portava con sé anche un bastone?

C’è da immaginare che più che per correggere e sferzare i distruttori di comunità, gli servisse per appoggiarsi nelle grande fatiche apostoliche ma soprattutto per porre la debolezza umana tra le mani di Dio. Il bastone infatti è segno di Dio stesso che prende la debolezza umana su di sé e invita a riconoscere le proprie fragilità, a non vergognarsene, divenendo così trasparenza della Sua presenza. Così si riesce, come insegna Paolo, a vantarsi delle proprie debolezze (2Cor. 12, 7-10), punto di partenza obbligatorio per passare dall’io al “noi”.

*priore e rettore del Santuario di Madonna dell’Arco









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