San Giuseppe Moscati, una vita in Cristo per guarire anime e corpi

In occasione della memoria liturgica del santo napoletano, la riflessione del medico Giovanna Porciello

di Giovanna Porciello

Quando si cammina per Spaccanapoli, per la Napoli più viva e verace, e si è rapiti dalla bellezza delle chiese di San Domenico Maggiore e Santa Chiara, ad un certo punto, la via che pullula di napoletani e turisti, si apre in una piazza grande con un obelisco centrale e, protetta da un bugnato grigio, vi è un’altra chiesa, la Chiesa del Gesù Nuovo, maestosa ed incantevole, che dà il nome alla piazza suddetta.

Molti, entrando, si dirigono subito a destra, dove c’è la tomba del medico santo, di san Giuseppe Moscati, portando una rosa da deporre davanti all’altare e accarezzando la mano della statua bronzea di grandezza naturale accanto all’altare.

A qualsiasi ora si vada nella Chiesa del Gesù Nuovo, c’è sempre qualche fedele che prega e affida a San Giuseppe i suoi affanni o i suoi ringraziamenti. San Giuseppe Moscati è lì, come un figlio della sua Napoli dove, più che altrove, c’è un confine sottile tra l’aldiqua e l’aldilà, dove il contatto con i Santi è quanto mai vivo, carnale e sanguigno.

Giuseppe Moscati nacque, il 25 luglio 1880, a Benevento, ma, piccolissimo, si trasferì con la famiglia, dapprima ad Ancona e poi a Napoli. Il padre, Francesco Moscati, era un magistrato, la madre Rosa de Luca di nobili origini, dei marchesi di Roseto. Moscati conobbe la sofferenza da giovanissimo, quando il fratello Alberto, in seguito ad una caduta da cavallo, riportò una lesione inguaribile. Fu un evento traumatico per l’intera famiglia e soprattutto per il premuroso Giuseppe che si dedicò con grande tenerezza al fratello malato. Lì, probabilmente, si compì la scelta di diventare medico. Un medico brillante, che eccelse in pochi anni nel panorama medico partenopeo sia a livello ospedaliero che universitario. Laureatosi nel 1903 cum laude e dignità di stampa, divenne prima coadiutore all’Ospedale degli Incurabili, poi aiuto ordinario negli Ospedali Riuniti e infine primario.

Anche la carriera universitaria fu straordinaria: dopo aver superato, nel 1908, il concorso di assistente ordinario per la cattedra di Chimica fisiologica, svolse attività di ricerca e laboratorio. Dal 1916 al 1917, sostituì il celebre prof. Pasquale Malerba nel corso di Chimica fisiologica e dal 1917 al 1920, nel corso di Chimica organica, il prof. Filippo Bottazzi, padre della Biochimica e a cui è intitolata una delle aule più illustri del Corso di medicina e chirurgia dell’Università “L. Vanvitelli” di Napoli, presso il Primo Policlinico. Le sue ricerche furono pubblicate su molte riviste italiane ed internazionali, soprattutto quelle innovative sul glicogeno.

Giuseppe divenne, nel 1922, professore in Clinica medica ad unanimità di voti della commissione con dispensa dalla prova. Ma il noto professore, medico, ricercatore, ogni giorno riceveva file di malati e bisognosi che bussavano al suo studio per essere visitati ed assistiti. Aveva un intuito diagnostico fuori dal comune che derivava, sì, dalla sua preparazione, ma anche dalla realizzazione della sua vocazione e missione: Moscati era nato per essere medico!

Per il medico santo - così fu chiamato subito, il giorno della sua morte il 12 aprile del 1927 dalle migliaia di persone accorse da tutta Italia a recargli l’ultimo saluto - il corpo e l’anima formano un’unità inscindibile e il suo pensiero è all’avanguardia anche oggi, soprattutto in una cultura scientista come quella attuale. Per Moscati la scienza è uno strumento a servizio dell’Uomo nella sua interezza: è il mezzo e non il fine. Il fine è sempre l’uomo. L’uomo da servire nella sofferenza, l’uomo da curare, da amare. L’uomo in cui è presente Gesù.

Scrive ad un suo paziente il 23 giugno 1923: “Non c’è che una gloria, una speranza, una grandezza: quella che Dio promette ai suoi servi fedeli. Vi prego di ricordarvi dei giorni vostri d’infanzia, e dei sentimenti che vi tramandarono i vostri cari, la vostra mamma; tornate all’osservanza e vi giuro che, oltre il vostro spirito, ne sarà nutrita la vostra carne: guarirete con l’anima e con il corpo, perché avrete preso la prima medicina, l’infinito Amore”. Nel suo studio, in un cappello capovolto, aveva scritto la frase divenuta celebre “Chi ha metta e chi non ha prenda” perché agli indigenti prestava gratuitamente le visite, anzi offriva loro medicine e cibo.

Cosa dice oggi a noi il nostro caro Medico Santo?
Innanzitutto, dice che ciascuno è chiamato a vivere la propria vocazione ed unicità, perché in quelle si trova la realizzazione della propria esistenza; e dice anche, con la sua vita di amore, che ciò che conta è sempre il tesoro inestimabile che portiamo nell’anima. Ѐ da lì, dall’amore di Cristo che in essa dimora, che zampilla ogni sorgente di grazia e di guarigione.
Giuseppe Moscati è un esempio per i medici che si ispirano a lui e scelgono di incarnare ciò che Gesù rivela in Mt 25, 31-46: “...lo avete fatto a me…”, ma è anche una luce per tutti gli uomini, perché in modo profetico, con la sua vita, mostra come la dimensione umana può dirsi veramente integra se animata da quella spirituale, e come quest’ultima sia indispensabile e non opzionale per la vita e la salute. Come sotto gli occhi di tutti, i fatti di cronaca sempre più incalzanti mostrano quanto mai sia necessario l’annuncio del Regno.
La vita senza Dio non ha sapore e la vita di Giuseppe Moscati è stata ricca di sapere e sapore, perché svuotata di ogni aspirazione al potere, ma riempita dell’amore di Cristo. Grazie, san Giuseppe Moscati!




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