Lo scorso 28 novembre, il padre gesuita Gaetano Piccolo ha guidato il ritiro d'Avvento dei sacerdoti della diocesi di Nola, presso il Seminario vescovile.
A partire dal passo del Primo Libro dei Re (1 Re 19, 1-8) in cui si narra della paura che assale Elia dopo aver ricevuto la minaccia di morte di Gezabele, il gesuita ha condotto i presenti in una profonda riflessione sui momenti di crisi: «Proprio nei luoghi della nostra disperazione, Dio ci raggiunge», ha sottolineato durante la meditazione.
La meditazione di padre Gaetano Piccolo ai sacerdoti della diocesi di Nola
1 Re 19,1-8
Acab riferì a Gezabele tutto quello che Elia aveva fatto e che aveva ucciso di spada tutti i profeti. Gezabele inviò un messaggero a Elia per dirgli: «Gli dèi mi facciano questo e anche di peggio, se domani a quest'ora non avrò reso la tua vita come la vita di uno di loro». Elia, impaurito, si alzò e se ne andò per salvarsi. Giunse a Bersabea di Giuda. Lasciò là il suo servo. Egli s'inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto una ginestra. Desideroso di morire, disse: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri». Si coricò e si addormentò sotto la ginestra. Ma ecco che un angelo lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia!». Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia, cotta su pietre roventi, e un orcio d'acqua. Mangiò e bevve, quindi di nuovo si coricò. Tornò per la seconda volta l'angelo del Signore, lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino». Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l'Oreb.
Dopo che abbiamo lottato aspramente contro il male, dopo esserci impegnati e buttati nella battaglia, ci sembra tante volte che non sia servito a niente. Il male sta ancora lì, anzi a volte sembra perfino rafforzarsi. Il potere del re Acab e della regina Gezabele non sembra affatto scalfito e la situazione del popolo d’Israele sembra ancora immersa nell’incertezza e nel peccato.
Eppure il potere del re appare ancora una volta malato. È succube della moglie, al punto da avvisarla puntualmente di quanto è accaduto sul Carmelo, come se egli da solo non riuscisse a far fronte alle conseguenze di quello che è avvenuto nella sfida tra Elia e i profeti di Baal. D’altra parte, pur non apparendo ufficialmente, è chiaro che proprio Gezabele gestisce di fatto nell’ombra tutta la situazione del regno. Accade così molte volte nelle vicende umane, quando il potere è manipolato e diretto da chi trama nell’ombra. Quando c’è un re debole – ma al posto del ruolo del re potremmo mettere tante altre figure di governo – c’è sempre qualcun altro che ne approfitta per curare i propri interessi, manipolando chi è esposto in prima persona. Ormai è Gezabele a prendere le decisioni e a condurre gli eventi, in maniera sempre più efferata e sanguinaria.
Gezabele manda a dire a Elia che la sua fine è decretata: gli sarà riservata la stessa sorte dei profeti che lui ha sgozzato. È l’arroganza del potere che si sente forte e sicuro, il potere che non accetta defezioni, il potere che si convince di poter gestire la vita dei sudditi secondo il proprio arbitrio. Questo potere fa paura: Elia fugge, preso dallo sconforto. Il suo cuore è abitato dalla paura e dalla solitudine. Sappiamo bene che la paura ci rende irrazionali, agiamo molto spesso d’impeto, senza riflettere sulle nostre reazioni. Elia se ne va verso sud, verso il deserto, in un certo senso vuole perdersi per non essere trovato. Non gli viene in mente di cercare aiuto. D’altra parte la condanna a morte lo ha reso ancora più solo, è pericoloso aiutarlo. In queste circostanze c’è sempre una doppia dinamica, non si capisce mai chiaramente quanto uno si isoli e quanto sia in realtà isolato, perché le due direzioni si sovrappongono. Come gesto di estrema solitudine, prima di inoltrarsi nel deserto, Elia lascia anche il suo servo. Cammina ora nuovamente verso un luogo dove la vita sembra impossibile, un luogo dal quale non ci si aspetta niente.
Questa pagina è segnata da una profonda solitudine, non solo rispetto alle relazioni umane, ma anche rispetto a Dio: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri». È il grido di Elia, nel quale possiamo ritrovare il grido disperato di tanti uomini e di tante donne che non ce la fanno più. Elia cerca la morte perché sente che quello che sta avvenendo è inaccettabile. È il dolore innocente, è il grido del giusto perseguitato, è la preghiera di chi non ha più la forza per andare avanti. Elia riconosce di non essere migliore di altri, non ha uno spirito più forte di tutti quelli che hanno gettato la spugna davanti a una fatica insostenibile. Baal non è sconfitto definitivamente, sembra essere ancora lì con tutta la sua ombra minacciosa. È proprio così: a volte ci sembra di avercela fatta e invece il male ci sovrasta ancora con il suo volto tenebroso.
Preso dallo sconforto, Elia si lascia andare al sonno. Si tratta di quel sonno che spesso nella Bibbia è immagine della morte. È il sonno di chi si addormenta per non affrontare la realtà, il sonno di chi spera che al risveglio le cose siano cambiate, è il sonno di chi sente di non avere la forza per affrontare le difficoltà. Ma proprio nei luoghi della nostra disperazione, Dio ci raggiunge. Ciascuno di noi potrebbe rileggere la propria storia cercando di scoprire come Dio si è reso presente nei momenti in cui pensavamo di non farcela. L’angelo ha una parola di incoraggiamento per Elia: «Alzati e mangia!». È l’imperativo di Dio che ci ordina di uscire dai nostri sepolcri e dai luoghi in cui ci stiamo lasciando morire. Quel comando è così forte da essere ripetuto due volte, perché sappiamo bene che quando siamo abbattuti sembra che nulla riesca a rimetterci in piedi. Dio lo sa bene e ripete il suo invito. La seconda volta, però, quel comando si chiarisce anche nel senso e nello scopo: riprendere a vivere non è facile e occorre nutrirsi per trovare le energie necessarie.
È difficile rialzarsi anche perché il passato, il fallimento e la delusione ci pesano addosso: Elia rilegge la sua vicenda come un insuccesso, gli sembra che tutto quello che ha fatto non sia servito a nulla. È una sensazione che proviamo quando abbiamo lottato per una causa che ci stava a cuore oppure quando ci troviamo nei passaggi della vita con l’impressione di non aver costruito niente. Dio lo riporta alla vita con un gesto semplice e delicato, che forse suggerisce anche a noi i modi apparentemente banali con cui possiamo stare accanto agli altri e aiutarli a riprendersi: Elia apre gli occhi e trova davanti a sé una focaccia e un po’ d’acqua! È un gesto significativo perché tocca la memoria affettiva di Elia che certamente si sarà ricordato di quello che aveva ricevuto generosamente dalla vedova di Zarepta. È un gesto di attenzione perché il pane è stato cotto, vuol dire che qualcuno si è preso cura di lui ancora una volta. In fondo sappiamo bene che per Elia in questo momento, come per noi in tanti frangenti della vita, ciò che conta è sentire che non siamo soli e che qualcuno ci ha pensato, ci ha accudito e si è dato pensiero per noi. Proprio quando Elia aveva rinunciato a prendersi cura di se stesso, cercando la morte, qualcuno si è preoccupato che continuasse invece a vivere.
Elia è chiamato a riprendere il cammino, immagine di quella vita che deve andare avanti. Il cibo serve non solo per sopravvivere, ma anche per affrontare il viaggio. Se il cammino di Elia era stato in precedenza una fuga verso il deserto, Dio trasforma ora quel cammino in un pellegrinaggio verso una meta. Così cambia il senso della vita, anche quando per molto tempo è stata solo un vagabondaggio, a un certo punto può diventare un percorso verso un obiettivo che dà senso al viaggio. Elia deve camminare verso l’Oreb, quella è adesso la sua missione, il compito che illumina la sua vita. Possiamo ben comprendere che c’è sempre un Oreb, una meta, che Dio indica a ciascuno di noi. Nessuna vita è senza meta. Proprio quando la vita sembrava una fuga, Dio la trasforma e le dona un nuovo senso.
Che cos’è la motivazione?
L’essere umano è un soggetto mancante che funziona per una differenza di potenziale: siamo caratterizzati da uno scarto ontologico, che ci appartiene per natura, tra quello di cui abbiamo bisogno e quello che siamo. Questo scarto ineludibile ci spinge continuamente a cercare, in pratica ci tiene vivi. Quando questo scarto non viene più percepito, siamo morti o ci sentiamo morti. Nella filosofia classica, questa scoperta ha dato luogo ha una visione finalistica dell’esistenza, come la troviamo per esempio in Aristotele, il quale afferma che tutti gli uomini tendono a essere felici, cioè a realizzare la propria natura : come un coltello è un buon coltello quando taglia o un bravo musicista è tale quando suona bene, così l’uomo si realizza pienamente quando sviluppa le sue capacità più proprie, che, secondo Aristotele, risiedono nella sua capacità di pensare.
Per raggiungere questo fine ultimo, l’essere umano, più o meno consapevolmente, mette in atto dei comportamenti che sono dei mezzi per raggiungere dei fini intermedi, i quali progressivamente dovrebbero portare a compiere questo cammino verso la realizzazione di se stessi per essere felici. Se vogliamo essere felici non possiamo per esempio convivere con il nostro mal di testa, cercheremo piuttosto di riposarci o di prendere aria per stare meglio e riprendere il nostro cammino verso la felicità.
Nella predicazione evangelica, colpisce però che non venga più usato il termine eudaimonia, presente in Aristotele. Nel discorso delle beatitudini, Matteo usa infatti l’aggettivo macharios, come per dire che la felicità è una condizione e non un fine. Gesù infatti descrive delle situazioni (quella dei poveri, dei miti, di coloro che sono nel pianto…) nelle quali c’è uno spazio per vivere l’esperienza di Dio, per accogliere la presenza di Dio che ci rende felici. Nella visione cristiana quindi noi siamo resi felici da Dio, non si tratta di uno sforzo volontaristico e meritevole che solo alcuni riuscirebbe a fare, come nella visione aristocratica di Aristotele.
Siamo abitati, direbbe Agostino, da un’inquietudine creaturale, derivante dalla nostra identità. Siamo infatti creati da Dio per lui e «il nostro cuore è inquieto finché non riposa in lui». Dio ha messo in noi il desiderio di lui per attirarci continuamente a sé, non per spadroneggiare sulla nostra vita, ma per portarci là dove la nostra vita si realizza, cioè nella relazione con lui. Il fine della nostra vita, che Aristotele chiamava felicità, Agostino lo chiama relazione della creatura con il Creatore.
La psicologia contemporanea ha individuato alcuni passaggi che fanno parte dell’esperienza umana e che sono preparatori al raggiungimento di questo fine ultimo. Utilizzando la terminologia di Maslow, potremmo dire che la felicità o la relazione con Dio rappresentano l’autorealizzazione dell’essere umano, ciò a cui desideriamo giungere, ma ciò è possibile se prima abbiamo dato risposta ad altri bisogni, altrimenti la nostra attenzione e la nostra energia difficilmente si potrà orientare verso un obiettivo più alto e profondo. Nella sua teoria, Maslow usa indifferentemente i termini bisogno e desiderio.
Volendo individuare alcune differenze, potremmo dire che i bisogni sono maggiormente collegati alla dimensione fisiologica, cioè a una mancanza oggettiva dovuta alle funzioni del nostro organismo. Il bisogno è infatti pienamente soddisfatto quando l’organismo riceve una risposta adeguata. Ovviamente il bisogno si presenterà poi nuovamente, sempre in relazione a ciò che avviene nel corpo. Sebbene però il bisogno sia originariamente legato alle funzioni fisiologiche, non c’è dubbio che esso incida e coinvolga tutta la persona: se per esempio ho fame, questo determinerà il mio umore, le mie priorità, il mio modo di guardare al tempo e alle situazioni, fino a condizionare il mio modo di ricordare o di rileggere le situazioni. Ciò vuol dire che non possiamo considerare il bisogno isolandolo dal resto della persona. Il modo stesso in cui un soggetto vive i suoi bisogni ha dei tratti specifici legati al suo carattere, alla sua storia e alla sua cultura. A differenza del bisogno, il desiderio si pone a un livello più profondo e ha a che fare con il nostro modo di interpretare il mondo.
Desideri e valori sono strettamente collegati: in genere quello che ci spinge è la volontà di realizzare i valori che consideriamo più importanti per la nostra vita. Se per esempio per noi la famiglia è un valore importante, cercheremo di trovare un partner. Se per noi un valore importante è la condizione fisica, avremo desiderio di cercare una palestra per metterci in forma. Se per noi la giustizia è un valore importante, cercheremo di aiutare coloro che sono in difficoltà. Questi esempi ci aiutano anche a comprendere che un desiderio non è mai definitivamente soddisfatto, neppure temporaneamente, come un bisogno. Non c’è un oggetto che possa assolvere pienamente la richiesta implicita in un desiderio. Il desiderio, possiamo dire, trascende sempre la realtà, è sempre un po’ più in là di come la realtà si presenta, ha una componente ideale che proprio per questo continua ad attirarci e ci mette in movimento.
Sia nel caso dei bisogni che in quello dei desideri, è chiaro che abbiamo sempre a che fare proprio con un movimento, da qui infatti deriva la parola motivazione. Per natura siamo sempre in movimento, anche quando non ne siamo pienamente consapevoli: c’è sempre qualcosa che ci muove! Se però riconosciamo quello che ci muove, possiamo decidere se seguire questa spinta e come eventualmente portarla a compimento. Quando non abbiamo più la percezione di un movimento interiore, tendiamo a spegnerci, fino a quelle situazioni più patologiche che caratterizzano gli stati depressivi. È importante quindi riflettere anzitutto su come rispondiamo ai nostri bisogni fisiologici, ma è anche opportuno chiedersi come stiamo cercando di rispondere ai nostri desideri più profondi.
Le risposte ai bisogni fisiologici (fondamentalmente alimentazione e sessualità) possono talvolta essere distorte o non ordinate. Se questi bisogni non vengono adeguatamente riconosciuti e li lasciamo agire dentro di noi, possono diventare la sublimazione, non efficace e sana, di altri bisogni o desideri. Il cibo per esempio può diventare un modo per riempire il nostro vuoto, la mancanza di senso o la percezione della solitudine. In questi casi il cibo non solo non ci permette di rispondere a quei bisogni o desideri, ma pregiudica la nostra salute fisica. In maniera analoga, un certo modo disordinato di vivere la sessualità può diventare l’oggetto su cui, in maniera distorta e inopportuna, spostiamo il nostro desiderio di potere che non siamo in grado di riconoscere e di gestire, così come può diventare un tentativo di procurarci una gratificazione che non siamo capaci di chiedere dentro relazioni sane.
Quello che a volte vogliamo non è un fine, ma si tratta di un mezzo per raggiungere un fine che preferiamo non riconoscere: qualcuno per esempio potrebbe volere una nuova automobile, ma questo desiderio potrebbe essere solo un mezzo per rispondere al suo desiderio di non sfigurare con i suoi vicini, risponde cioè al desiderio di stima e di approvazione, che potrebbe fare difficoltà ad ammettere a se stesso. Nel nostro cammino personale è utile quindi fermarsi a chiedere cosa vogliamo veramente. Gli studi antropologici rivelano che i desideri ultimi sono più o meno simili in tutte le culture. Quello che differisce maggiormente è il modo più prossimo per arrivare a realizzarli. Nella maggior parte delle culture, per esempio, è condiviso il bisogno di essere stimati, ma il modo di rispondere a questo bisogno è talvolta molto diverso: in alcune culture per essere stimato si potrebbe per esempio cercare di diventare un bravo medico, in altre culture sarebbe meglio diventare un bravo cacciatore!
Nella teoria di Maslow, i desideri (o i bisogni secondo il suo vocabolario) si dispongono in una specie di gerarchia di prepotenza, sebbene egli abbia anche riconosciuto che questa gerarchia non sempre è rigida.
I bisogni fisiologici, secondo questa teoria, riescono a cancellare tutti gli altri: parafrasando il Vangelo, dovremmo dire che l’uomo non può vivere senza pane. Il corpo compie atti volti a mantenere un equilibrio, ciò che si chiama omeostasi. Se è vero che non possiamo vivere senza pane, dobbiamo però anche chiederci cosa avvenga degli altri desideri quando c’è il pane. Da queste considerazioni deriva anche che per poterci concentrare sugli altri bisogni, dobbiamo prima ascoltare il nostro corpo: non ci può essere per esempio una vita spirituale sana, senza un’attenzione previa alla nostra dimensione fisica.
Anche nello sviluppo della specie, dopo essersi procacciato da mangiare, l’uomo primitivo cerca dei luoghi di riparo per difendersi e non diventare egli stesso preda di altri animali. È il secondo livello dei bisogni, ovvero la sicurezza. Nella cultura moderna, gli adulti tendono a inibire questo bisogno, già l’adolescente per esempio tende a farsi vedere spavaldo e ignaro del pericolo. Nei bambini, invece, la ricerca di sicurezza è più evidente. D’altra parte la nevrosi può anche essere dovuta a un’eccessiva concentrazione dell’adulto su questo bisogno di sicurezza, fino ad arrivare per esempio a non voler uscire di casa, a non essere in grado di guidare o di prendere i mezzi di trasporto pubblico o a decidere di evitare il contatto con estranei.
In uno sviluppo sano, invece, più cresciamo nella conoscenza, più riusciamo a neutralizzare i pericoli. È anche vero che alcune esperienze traumatiche possono accentuare il bisogno di sicurezza: per esempio dopo un incidente in auto, potrebbe essere più difficile rimettersi alla guida oppure se un bambino è stato allontanato dai genitori anche per un breve periodo, per esempio per la gravidanza della madre, questo potrebbe comportare nel bambino un accentuarsi del bisogno di sicurezza. Come un uomo sazio non sente più la fame, così un uomo sicuro non si sente più in pericolo.
Il bisogno eccessivo di sicurezza nasce quindi molte volte o da un’educazione insufficiente, con poco amore e cura, o da esperienze che possono aver alterato la percezione del pericolo. Queste dinamiche ci fanno anche capire perché molte volte i governi, non solo nei regimi totalitari e nelle dittature, tendono a concentrare l’attenzione della popolazione sui bisogni fisiologici (la carenza di generi di prima necessità) o sul bisogno di sicurezza (dare la percezione di un imminente pericolo) perché in questo modo le persone tendono a non sviluppare desideri più alti e accettano i sacrifici richiesti pur di rispondere ai bisogni primari: nella fame e nel pericolo è difficile sviluppare visioni di libertà, di giustizia e di democrazia.
La nevrosi in cui la ricerca di sicurezza ha la forma più chiara è di tipo ossessivo-compulsivo. È la nevrosi presente in coloro che cercano sempre di ordinare il mondo, in modo che tutto sembri sotto controllo. Creano per esempio rituali e cerimonie in modo che nulla sia lasciato all’incertezza del caso. Siccome tale controllo è irrealizzabile, la nevrosi si autoalimenta.
Quando il bisogno di sicurezza trova una risposta adeguata, può trovare spazio il sentimento di appartenenza e il bisogno di affetto.
Si tratta del desiderio di trovare un proprio posto nel gruppo. Il sentimento di appartenenza subisce traumi considerevoli quando per esempio siamo strappati ai nostri luoghi di origine o ai luoghi in cui avevamo trovato una casa. Sono i traumi che caratterizzano non solo il mondo dell’immigrazione, ma anche molte volte le modalità in cui avvengono trasferimenti e rimozioni nelle dinamiche ecclesiali e della vita religiosa. Come scrive Maslow, «tutti abbiamo bisogno di appartenere a un gregge». I gruppi di contestazione giovanile o l’arruolamento nei gruppi militari o l’ingresso nelle congregazioni religiose rispondono a questo bisogno di appartenenza.
Il livello successivo è dato dal bisogno di stima, che comprende sia il bisogno di sentirsi adeguati per affrontare il mondo, sia il bisogno di essere considerati adeguati. Si tratta in altre parole dell’autostima. Un problema significativo nasce per esempio quando facciamo poggiare la nostra stima sul giudizio degli altri piuttosto che sulle nostre capacità reali. Lo vediamo per esempio in coloro che aspirano a ruoli, posizioni, riconoscimenti sociali, come un modo per nutrirsi dell’approvazione esterna o per essere rassicurati. Le persone carrieriste e gli arrampicatori sociali sono di solito persone che hanno una bassa autostima e sono eterocentrate, cioè dipendono dal giudizio degli altri.
Un altro tipo di problema nasce anche quando la stima non è basata sull’io reale, ma sul proprio io idealizzato, ci può essere cioè una percezione distorta in eccesso delle proprie capacità e competenze. Ciò porta molte volte al conflitto, perché queste persone non si sentono comprese, oppure si assumono responsabilità per le quali in realtà non sono adatte, ma talvolta, per evitare lo scontro, il gruppo si adegua alla patologia e lascia correre, ovviamente con gravi conseguenze.
Il cammino di sviluppo umano, secondo Maslow, deve portare a rispondere al bisogno di autorealizzazione. Ognuno infatti desidera essere pienamente quello che la natura gli ha dato di essere. Ciò che uno può essere, desidera esserlo. O meglio, la nostra crescita sana ci porta verso questo autocompimento, la vita ci chiede di attualizzare il nostro potenziale, il che richiede la conoscenza e la consapevolezza del proprio valore, delle proprie capacità e delle proprie risorse. Quanto più rispondiamo a questa domanda di compimento, tanto più la vita ci appare piena di senso. Quanto più abdichiamo a questa tendenza costitutiva, tanto più la vita ci appare pesante e inutile.
Man mano che i nostri bisogni vengono gratificati, cresceremo nel rafforzamento della nostra personalità. Coloro che sono stati amati bene, che hanno vissuto l’affetto e l’amicizia nei primi stadi di vita, sono in genere persone forti, capaci di affrontare le avversità, le critiche dell’opinione pubblica, il disprezzo, la persecuzione.
Leggendo la storia di Elia ci accorgeremo come il profeta sia passato proprio attraverso un cammino di risposta ai suoi bisogni fino al compimento della sua vita: Elia deve affrontare prima di tutto la carestia, deve fare i conti con la fame e con la difficoltà di rispondere ai bisogni primari. Si sentirà minacciato e, nel pericolo, cercherà rifugio in una grotta come tentativo di rispondere al suo bisogno di sicurezza. Si dovrà confrontare con la solitudine, il rifiuto e la paura di essere stato abbandonato anche dal suo popolo, mettendo in discussione il suo senso di appartenen. Dovrà fare i conti con una caduta nell’autostima che lo porterà persino a cercare la morte, sentendosi inadeguato davanti alle situazioni che aveva davanti. Nonostante questo, grazie anche al suo cammino spirituale e alla grazia di Dio, riuscirà a ritrovare forza ed energia per portare a compimento la sua vita, fino a realizzarla pienamente, diventando generativo e trasformando la sua vita in una preghiera che sale a Dio.
Ciascuno di noi, proprio come Elia, è chiamato a prendere consapevolezza dei propri bisogni e dei propri desideri. La vita ci mette sicuramente anche davanti a ostacoli, fatiche e delusioni, ma ciò non vuol dire gettare la spugna. Ci si nutre e si riprende il cammino. C’è una bellezza dentro di noi che merita sempre di essere raccontata. Nel confronto con il profeta, possiamo cercare di individuare dove ci troviamo nel nostro cammino di crescita, per rialzarci e portare la nostra vita a compimento.