I cardinali esiliati da Napoleone

Furono ben tredici, condannati per aver disertato il rito civile e religioso del matrimonio con Maria Luisa d'Austria

Nella notte tra il 5 e 6 luglio 1809, Napoleone fa arrestare papa Pio VII, dopo la pubblicazione della scomunica sul popolo francese voluta dallo stesso Pontefice a causa dell’annessione di Roma all’impero napoleonico. Da quel giorno, il Papa fu esiliato a Savona e Bonaparte, il 25 febbraio 1810, promulga un editto sulla Chiesa gallicana, confermando la precedente dichiarazione del 1682, che sanciva una sorta di indipendenza dalla Chiesa di Roma. Questo atto dichiarava la nuova sede “spirituale” della Chiesa, Parigi, in cui era riunito gran parte del sacro collegio e luogo in cui

«oltre alle ricchezze artistiche d’Italia, erano stati trasportati anche gli archivi papali, la tiara e l’anello del pescatore»*.

Il rivoluzionario imperatore dei francesi, avendo rafforzato i confini dell’Impero, adottò la normale strategia di ogni sovrano, che permette alle nazioni di mantenere pace tra loro: i matrimoni tra le casate reali. Il suo calcolo politico lo dirige verso un’unione con l’ostica casa d’Austria. Nel contempo, Napoleone era già unito in matrimonio con Giuseppina di Beauharnais e, per questo, decide di sciogliere il vincolo «con procedura gallicana, cioè con sentenza dell’officialità diocesana parigina, senza seguire la procedura del ricorso al pontefice, da secoli investito di una giurisdizione diventata privilegio».

La motivazione che spinse Napoleone ad eseguire lo scioglimento solo in sede diocesana, ufficialmente fu il momentaneo impedimento del giudizio del Pontefice, essendo esiliato in quei momenti.

Determinato a compiere il matrimonio con Maria Luisa d’Austria, Napoleone decise di riunire nella sua corte tutto il sacro collegio cardinalizio, fautore, secondo il Bonaparte, di una politica avversa alla sua persona, facilitata dalla loro permanenza a Roma o in Italia, nonostante l’esilio “forzato” di Pio VII. Il Bovara, ministro per il culto in Italia, il 28 novembre 1809, esegue un ordine di pochi giorni prima, che impone ai cardinali residenti nel regno italiano di recarsi a Parigi, nella corte imperiale. Diversi cardinali non potettero ottemperare a questo dispaccio, o perché ammalati o perché già in prigione (come il Pacca, prigioniero a Fenestrelle).

«I cardinali Consalvi e Di Pietro, i quali avevano dichiarato di rimanere a Roma e di non obbedire che al Papa, ebbero l’ordine ripetuto dalla gendarmeria, e il 10 dicembre 1809 furono arrestati e condotti a Parigi, ove giunsero il 20 gennaio dell’anno successivo».

Vinta la resistenza dei due cardinali, a Parigi furono riuniti ventinove porporati, trattati con tutto il dovuto riguardo, ricevendo «un assegno annuo di trentamila franchi», rifiutato dagli irriducibili cardinali Consalvi (Segretario di Stato) e Di Pietro (Prefetto del Sant’Uffizio), «colonne forti del senato apostolico», insieme a Pignatelli e Saluzzo.

Intanto si avvicinava il giorno del secondo matrimonio dell’Imperatore e i cardinali si trovavano nella difficile scelta di parteciparvi o meno. Consalvi e Di Pietro, insieme a Della Somaglia e Mattei erano sostenitori della non partecipazione; «non facevano questione se il primo matrimonio di Napoleone avesse o meno motivi canonicamente legali di scioglimento, ma l’altra più grave, che il mancato ricorso alla secolare giurisdizione papale in materia, costituiva un’aperta violazione di riconosciuti privilegi». La posizione estrema di rifiuto divise il sacro collegio: tredici cardinali erano favorevoli all’assenza durante i riti, mentre quattordici dichiararono la loro presenza. Le eminenze contrarie, per evitare la sorpresa della loro assenza e sondare il terreno, delegarono il cardinale Fesch di accennare all’imperatore suo nipote la loro possibile mancanza al matrimonio; Napoleone, secondo il Consalvi, avrebbe risposto lapidariamente: «Non oseranno giammai!».

Il cerimoniale previsto per le nozze tra Napoleone e Maria Luigia prevedeva quattro momenti: il 31 marzo 1810, a Saint Cloud la sposa doveva essere presentata ufficialmente alla corte, ai sovrani convenuti e al corpo diplomatico; il 1 aprile, a mezzogiorno, si sarebbe celebrato il matrimonio civile, sempre a Saint Cloud; il giorno dopo, sempre a mezzogiorno, nel salone grande del Louvre, allestito come cappella per l’occasione, si sarebbe celebrato il rito religioso, presieduto dal cardinale Fesch; il 3 aprile, invece, i nuovi sposi avrebbero ricevuto l’omaggio di devozione, nella sala del trono alle Tuileries .

I cardinali ricevettero l’invito il 30 marzo e presero la decisione di partecipare alle cerimonie di cortesia, evitando di essere presenti il 1 e il 2 aprile, nei due riti del matrimonio. Arrivata la sera della cerimonia di presentazione, i cardinali resero omaggio all’imperatore e alla futura sposa, ma si prepararono a disertare nei due giorni successivi. In realtà, la loro assenza al rito civile non ebbe gravi conseguenze;

«all’imperatore premeva, invece, la presenza di tutti i cardinali radunati a Parigi, al rito religioso, non soltanto pel maggior fasto che la cerimonia avrebbe assunto, ma perché poneva il senato apostolico in dissenso e in conflitto con Pio VII, isolando, se non annullando, la sua autorità».

Arrivò così il giorno della celebrazione del matrimonio religioso. Il salone grande del Louvre aveva assunto una fastosa sembianza di cappella e tutto sembrava procedere con solennità; nella processione che portava gli sposi all’altare, Napoleone si accorse dell’assenza di molti cardinali e, rivolto al maestro di cappella, abate de Pradt, chiede dove siano i porporati. Il prelato cerca di trovare delle giustificazioni, ma l’imperatore fu molto seccato. Napoleone ritenne fautori di questa “congiura”, i cardinali Consalvi e Di Pietro. I tredici porporati parteciparono comunque, insieme al resto del sacro collegio, alla cerimonia di omaggio del 3 aprile. Furono ricevuti tutti i presenti, tranne i tredici cardinali refrattari, che furono invitati da un aiutante dell’imperatore, ad allontanarsi dalla sala.

Nei giorni che seguirono la reazione di Napoleone fu inesorabile: obbligò i cardinali residenziali a presentare le loro dimissioni dalle varie sedi episcopali, per tutti, invece, su ordine del ministro della polizia Fouchè, fu fatto divieto «di portare i segni della loro dignità, sotto pena dell’arresto». Immediatamente, il ministro dei culti Bigot de Prèameneu convocò i tredici cardinali la sera del 4 aprile; in quella circostanza, fu presente anche il cardinale Fouchè che presentò le decisioni imperiali: da quel momento i cardinali persero i beni ecclesiastici e patrimoniali, non erano considerati da Napoleone come cardinali e per questo era fatto divieto di portare nessun segno della loro dignità, avrebbero saputo a breve il loro destino, secondo gli ordini dell’imperatore. Apprese le decisioni imperiali, i tredici cardinali si riunirono per redigere una lettera che giustificasse il loro comportamento: «La dichiarazione era redatta con spirito di grande remissione, e per sollecitare un perdono. Questa era, almeno, la speranza di alcuni dei tredici cardinali. Essi avrebbero desiderato che fosse inclusa anche la richiesta di essere reintegrati nel possesso dei beni e nel diritto di portare la porpora».

Il 12 giugno 1810, i tredici cardinali furono ricevuti dal ministro dei culti, che consegnò a ciascuno un biglietto, che indicava la località del loro “esilio”.

*Le citazioni sono tratte da U. BESEGHI, I tredici cardinali neri, Casa Editrice Marzocco, Firenze 1944.




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