a cura di Silvana Santo
giornalista, blogger (unamammagreen.com)
Mia nonna nacque nel ’21, appena dopo la famigerata epidemia di Spagnola di cui tanto si racconta negli ultimi, tragici mesi. Poco più che adolescente, ha avuto tre bimbe in due anni, lontano da casa e durante una guerra da cui poi, assieme alle figlie, è dovuta scappare con mezzi di fortuna. Mia nonna non ha fatto in tempo a conoscere i miei bambini, ma se fosse ancora tra noi, probabilmente, penserebbe che crescere un figlio ora – nel benessere, in pace, con i vaccini, il cibo e la tecnologia – sia un’esperienza assai più facile di quella che, settant’anni fa, era toccata a lei. Da molti punti di vista, avrebbe ragione. Eppure, e lo dico con rispetto e con la massima consapevolezza, non è che oggi sia esattamente una passeggiata. Già esposti normalmente, come generazione, a una pressione sociale altissima, a un’ansia da prestazione schiacciante (che grava soprattutto sulle madri, ça va sans dire), noi genitori ci ritroviamo da mesi in una condizione profondamente ansiogena e incerta.
Come tutti, certo. Ma con l’aggravante di dover gestire la responsabilità del benessere, non soltanto fisico, di bambini più o meno piccoli e ignari. Da lunghi mesi ci troviamo sommersi da un flusso ininterrotto e turbolento di informazioni, spesso ridondanti, male espresse, non verificate e, soprattutto, in continua contraddizione tra loro. Ci siamo inventati insegnanti, senza averne le competenze, le velleità, l’esperienza. Senza averne il ruolo e l’autorevolezza. Ci siamo improvvisati psicologi. Capaci di ingoiare il boccone amaro della nostra stessa angoscia in nome della serenità dei nostri figli. Ci siamo riscoperti compagni di giochi. Amici senza poterlo essere (per anagrafe, per ruolo, per attitudine), surrogati più o meno efficaci di una generazione di coetanei che improvvisamente è scomparsa dalle giornate dei nostri bambini. Ci siamo messi a fare i cuochi. Pasticcieri, fornai, pizzaioli.
E non perché avessimo paura che sarebbe mancato il cibo in tavola, che i nostri figli sarebbero morti di fame: abbiamo rispolverato il rito atavico del ‘preparare il pane’ come gesto primo e ultimo di accudimento, come esorcismo collettivo, come atto definitivo di vero amore. Siamo diventati animatori, musicisti, lettori, infermieri, confessori, allenatori. Ci siamo letteralmente fatti carico delle vite dei nostri piccoli, del loro benessere emotivo e psicologico, prima ancora che fisico, come mai nessuna generazione aveva dovuto fare prima. Ventiquattr’ore al giorno, da soli. Non posso neanche immaginare come debba essersi sentita mia nonna, madre ventenne stretta tra le truppe di due schieramenti diversi. Ma non è per niente facile nemmeno per noi, rampolli, come ci dicono, dei grassi anni ’80, generazione del benessere e della ‘bella vita’. Madri e padri disorientati e stanchi, perseguitati dalla preoccupazione e dall’incertezza di quello che sarà.