a cura di Raffaele Dobellini
equipe Scuola sociopolitica diocesana
Il 20 e il 21 settembre siamo chiamati a votare per un referendum costituzionale. Si tratta di confermare o bocciare il testo della legge costituzionale concernente Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale il 12 ottobre 2019. Le modifiche apportate alla Costituzione sono alquanto limitate, decisamente meno numerose di quelle per cui gli italiani furono chiamati ad esprimersi nel dicembre del 2016. Queste modifiche riguardano sostanzialmente la riduzione del numero dei parlamentari. L’attuale numero di deputati (i componenti della Camera) è pari a 630 e sarebbe ridotto a 400, mentre il numero dei senatori (i componenti del Senato) è pari a 315 e sarebbe ridotto a 200. Chi è favorevole alla riduzione del numero dei parlamentari deve votare SI. Chi è contrario alla riduzione del numero dei parlamentari deve votare NO.
I referendum costituzionali sono, infatti, confermativi. Il referendum serve a confermare la legge, che entrerà in vigore solo se dovessero prevalere i SI. A differenza che per i referendum abrogativi, che servono ad eliminare una legge o una parte di una legge, per i referendum costituzionali non è previsto un quorum di partecipazione. Il referendum sarà, quindi, valido indipendentemente dal numero di persone che si recheranno alle urne, fossero anche poche decine di persone.
Le forze politiche hanno assunto posizioni diversificate in occasione di questo referendum costituzione. Mentre M5S, Lega e Fratelli d’Italia si sono orientati per il SI, Più Europa, Azione, PSI, LEU, Volt e Verdi hanno scelto il No. PD e FI presentano al proprio interno delle posizioni diversificate, anche se sembrano propendere per il SI. Italia Viva lascia sostanzialmente libertà di voto. La legge di riforma è stata, del resto, approvata in ultima seduta alla Camera con 553 voti a favore e solo 14 contrari. È opportuno evidenziare che la riforma fissa anche un tetto al numero di senatori a vita di nomina presidenziale (non più di 5), ma questa è una riforma secondaria, che conferma una prassi presidenziale applicata da sempre e a cui tutti i partiti sono d’accordo.
Il vero punto di contesa è la riduzione del numero dei parlamentari che per alcuni (sostenitori del SI) renderà più snello l’operato delle Camere, mentre per altri (sostenitori del NO) creerà seri problemi di stabilità democratica. Il mondo accademico e della cultura non sembra però essersi diviso in modo eguale tra le due opzioni. Si assiste ad una marcata presa di posizione di molti accademici a favore del NO. È stato, infatti, firmato un appello da ben 183 accademici (professori universitari e ricercatori) per il NO [1]. I presidenti emeriti della Corte costituzionale hanno, però, espresso opinioni discordanti. Il prof. Onida ha dichiarato di aver votato NO alle riforme proposte da Berlusconi e Renzi, ma che a questa voterà SI, pur odiando l’espressione “taglio delle poltrone” e ritenendo che il taglio dei costi della politica sia “una motivazione fasulla” [2]. Onida ritiene, infatti, che “sarebbe un atto di estrema sfiducia smentire una riforma approvata praticamente all’unanimità” e perché non condivide alcuna delle “presunte” conseguenze negative presentate dal fronte del NO. C’è anche chi, come il prof. Zagreblesky, accanito oppositore alla riforma del 2016, dichiara di non essere particolarmente interessato al quesito referendario, non comprendendo gli entusiasmi o le preoccupazioni dei due fronti in campo [3]. Ben diverse le posizioni del prof. Tesauro, che vede nel taglio un attacco al sistema parlamentare al punto da affermare che “ci ritroveremo un’aula sorda e grigia come negli anni Venti” (del secolo scorso), o del prof. Mirabelli, che ritiene che la “riforma non si inserisce nel contesto di altre variazioni della Carta e non risponde a una logica di sistema”. A queste posizioni fanno eco quelle di associazioni come “Libertà e Giustizia”, presieduta dal prof. Paul Ginsborg (storico), da sempre attenta al rispetto e alla valorizzazione del nostra Costituzione, che in un Appello pubblico afferma, tra l’altro, che la “riforma indebolisce il potere dei rappresentanti delle due camere e la stessa efficacia della rappresentanza perché non accompagnata da una riforma della legge elettorale in senso proporzionale e da adeguate forme di composizione delle liste di candidati” [4].
Se, quindi, gli stessi ex giudici della Corte costituzionale esprimono opinioni così diversificate, come potrebbe orientarsi un cittadino comune, privo di competenze giuridiche?
Proviamo, allora, a fare il punto facendoci aiutare dalle posizioni espresse da alcuni docenti universitari che hanno cercato di elencare i pro e i contro del taglio del numero dei parlamentari.
Nel fronte del SI spicca la posizione del prof. Ceccanti, costituzionalista e senatore del PD. Ceccanti spiega che sono decenni che si cerca di superare il bicameralismo perfetto (stesse ed analoghe competenze affidate alla Camera e al Senato) e contestualmente ridurre il numero dei parlamentari [5]. La riforma del 2016, di cui Ceccanti era sostenitore, prevedeva sia il superamento del bicameralismo perfetto, sia il taglio dei parlamentari (anche se più contenuto). Il fatto che questa riforma preveda solo il taglio del numero dei parlamentari e non anche il superamento del bicameralismo perfetto non è, ad avviso di Ceccanti, un motivo sufficiente per bocciare la riforma, che “è troppo piccola, non può produrre troppi sconquassi”. Il prof. Ceccanti riconosce che il cambiamento del numero dei parlamentari “proprio per la sua natura parziale ed imperfetta, porta con sé altre riforme”, ma il fatto che queste necessarie riforme non siano in cantiere non dovrebbe portare a propendere per il NO, anche solo perché l’aumento delle competenze assegnate negli anni alle Regioni ha ampliato il numero di coloro che partecipano all’attività legislativa e quindi non c’è bisogno di un elevato numero di parlamentari.
Di ben diverso avviso il prof. Plutino, costituzionalista e componente del comitato “Democratici per il No”. Proprio l’assenza delle altre riforme rende, a suo avviso, necessario un voto contrario. “Tutte le ipotesi di riduzione del numero dei parlamentari sono state formulate nell’ambito di progetti di differenziazione delle funzioni delle due Camere”[ 6]. In passato, quando si è parlato di tagliare il numero dei parlamentari lo si è fatto solo perché si era intenzionati a cambiare il sistema istituzionale. Il taglio da solo, quale anticipazione di altre (eventuali) riforme, non ha senso alcuno. Ridurre il numero dei parlamentari, infatti, ha senso solo se inserito in un progetto di superamento del bicameralismo perfetto. Non a caso la riforma del 2016 (anche il prof. Plutino la sosteneva) manteneva invariato il numero dei deputati (630), ma riduceva il numero dei senatori (100 in tutto) perché affidava loro il compito di rappresentanti delle Regioni. Il prof. Plutino, infine, richiama un’intervista del prof. Ceccanti al Corriere della sera del maggio 2019, in cui lo stesso senatore del PD riconosceva che “questo è uno spot elettorale e basta. È un taglio casuale e numerico. Non c’è stata alcuna volontà di affrontare i nodi strutturali di un bicameralismo ripetitivo totalmente indifendibile”.
Al di là delle punzecchiature tra professori universitari, non va trascurato uno dei principali temi posti dai sostenitori del NO. Come su illustrato, alcuni sostenitori del NO si dimostrarono nel 2016 favorevoli a ridurre il numero dei senatori, ma a lasciare invariato il numero di deputati. Il taglio dei senatori era, infatti, allora giustificato dal fatto che il Senato avrebbe avuto competenze ben diverse da quelle della Camera e che i senatori non avrebbero rappresentato direttamente i cittadini, ma le Regioni che li nominavano. I contrari all’attuale riforma ritengono che la stessa vada bocciata, anche perché creerebbe, a differenza della riforma del 2016, un serio problema di rappresentanza: molte province non vedrebbero eletto neanche un loro rappresentante in Parlamento e alcune regioni finirebbero per avere più rappresentanza di altre. Per dirla in modo semplice, per eleggere un deputato di Vicenza ci vorrebbero molti meno voti che per eleggere un deputato di Potenza. Il prof. Onida obietta, però, che “ci sono, anche oggi, delle differenze fra Regioni perché il Senato è eletto su base regionale, e ogni Regione ha come minimo sette senatori (diventerebbero tre). Quindi il numero di senatori da eleggere non è perfettamente proporzionale alla popolazione della Regione”. I sostenitori del NO, invece, contestano che da questo taglio si rafforzerebbe “un’Italia diseguale, dove in Trentino Alto Adige in media ci sarà un seggio elettivo per il senato ogni 171mila abitanti. E in Sardegna un seggio elettivo ogni 328mila abitanti, vale a dire quasi il doppio”. Questo avrebbe rilievo perché finirebbe per avere “effetti anche sulla rappresentanza politica, penalizzando le liste meno forti, oltre che sulla rappresentanza territoriale” [7].
È opportuno, infine, soffermarsi sul tema dell’eventuale risparmio economico frutto della riduzione del numero dei parlamentari. Vi è tra i sostenitori del SI chi, come il prof. Fusaro, sostiene che “pensare, in un paio di decenni, a un ridimensionamento di almeno il 25% dei costi non appare fuori luogo: nell’ordine di 3-400 milioni all’anno e 1,5-2 miliardi per legislatura da cinque anni. Sono il primo a condividere l’assunto secondo il quale sarebbe miope fare i micragnosi a danno della rappresentanza democratica: ma da qui a finanziare senza limiti un Parlamento pletorico come l’attuale, ne corre”[8]. Però, l’Osservatorio sui conti pubblici italiani dell’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano, presieduto dal prof. Cottarelli, ha precisato che il risparmio netto complessivo sarebbe “pari a 57 milioni all’anno e a 285 milioni a legislatura, una cifra significativamente più bassa di quella enfatizzata dai sostenitori della riforma e pari appena allo 0,007 per cento della spesa pubblica italiana” [9]. I sostenitori del NO puntato su analisi come questa per affermare che i risparmi economici si risolvono sostanzialmente in uno spot, ma che si ridurrà “a poca cosa la libertà dei singoli parlamentari, rendendo anche più difficile l’affermazione di una dissidenza interna e di un pensiero non allineato” [10].
Inutile soffermarsi su quelli che potranno essere gli effetti del referendum sulle singole forze politiche o sul governo. Non sembra corretto affrontare un voto su una riforma costituzionale, in base alla simpatia verso un leader politico o verso un governo. È bene in questi casi soffermarsi sul merito delle questioni. Non è mai facile esprimere una posizione netta, soprattutto quando anche gli esperti del settore mostrano che saranno necessarie ulteriori modifiche o si dividono sul peso di quelle già apportate. Come visto vi sono docenti universitari che considerano il taglio come irrilevante, altri come positivo, altri come deleterio. Sta ora ad ogni elettore decidere in piena autonomia, nella consapevolezza che in un referendum non è possibile esprime un voto intermedio. O si condivide la riforma (e si vota SI) o non si condivide la riforma (e si vota NO). Nel dubbio? Nel dubbio è sempre bene recarsi alle urne, cercando di dare ascolto al giudizio di politici ed esperti di cui ci si fida, ma soprattutto ricordando che ogni voto è determinante e che ogni cambiamento, o non cambiamento, porta con se sempre delle conseguenze. Sta ad ognuno di noi utilizzare saggiamente della propria libertà.
E ricordate: non fate mai cose che vostra nonna non farebbe. Buon voto.
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[1] Il Giornale, 25 agosto 2020.
[2] La Repubblica, 24 agosto 2020.
[3] La Repubblica, 22 agosto 2020.
[4] www.libertaegiustizia.it, 14 febbraio 2020.
[5] Il Foglio, 13 agosto 2020.
[6] Mondoperaio 7-8/2020
[7] Andrea Fabozzi, Il Manifesto, 20 agosto 2020.
[8] Libertàeguale, 24.2.2020.
[9] osservatoriocpi.unicatt.it, 24 luglio 2019.
[10] Alessandro Calvi, Internazionale, 19 agosto 2020.