A fine agosto, la prima copia della nuova traduzione del Messale Romano di Paolo VI promossa dai vescovi italiani è stata consegnata a papa Francesco dal presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti.
Si tratta della nuova traduzione in italiano della terza edizione tipica - in latino - del Messale Romano scaturito dal Concilio Vaticano II. Dalla fine del mese di settembre sarà disponibile nelle librerie. Il suo utilizzo diventerà obbligatorio dalla prossima Pasqua, ossia dal 4 aprile 2021, ma potrà essere utilizzato immediatamente, cioè non appena il libro giungerà nelle comunità.
L'avvicinarsi di queste importanti date sul piano liturgico rende utile riproporre l'intervento sul tema tenuto dal monaco Goffredo Boselli, liturgista, durante un incontro con il laicato diocesano.
Ricordiamo che il teologo Boselli è stato tra i relatori al X sinodo della Chiesa di Nola, lo scorso 8 gennaio 2016. Riproponiamo il suo intervento.
Per una chiesa che rende lode
Un caro saluto a tutti voi, fratelli e sorelle membri di questo sinodo diocesano della chiesa di Nola. Un affettuoso e filiale saluto al vescovo Beniamino che ringrazio di cuore per l’invito che mi ha rivolto. A tutti dico la mia gioia di essere questa sera in mezzo a voi per riflettere su significato e il valore della liturgia nella vita della chiesa e di ciascun uomo e donna credente.
Desidero anzitutto dirvi quanto io apprezzi e condivida la relazione generalePer una chiesa che rende lode, relazione che introduce i lavori di questa terza sessione del Sinodo diocesano. Ho letto con attenzione il testo e mi ritrovo interamente, anche nella parte relativa alle scelte concrete. Questo mio intervento vuole dunque semplicemente farsi eco della comprensione della liturgia come celebrazione del Mistero. La relazione del generale si compone infatti in tre parti tra loro successive: ripartire dal Mistero, introdurre al Mistero, vivere il Mistero.
Il mio intento non sarà quello di ripresentare o commentare la relazione generale, quanto piuttosto cercare di interpretarla. Nella prima parte cercherò di mostrare che comprendere la liturgia come mistero, significa anzitutto che non siamo noi che facciamo la liturgia ma è lei che fa di noi dei credenti. Nella relazione generale si legge “la liturgia viene vissuta più come cosa da fare o obbligo da compiere che come evento da cogliere”. Per questo ho intitolato la prima parte: La liturgia fa il cristiano.
A partire da questa prospettiva di fondo, nelle due parti successive porrò alla vostra attenzione e al vostro giudizio quelle che sono, a mio parere, le due necessità principali che riguardano la liturgia oggi nella vita della chiesa. Io sono oltremodo convinto che oggi vivere la liturgia come esperienza del Mistero, significhi far vivere la liturgia come spazio di santità ospitale. Dunque la prima necessità è far vivere la liturgia come spazio di santità ospitale. Appello per una liturgia ospitale.
Nell’ultima parte, indicherò la seconda necessità: io sono persuaso che oggi vivere la liturgia come esperienza del Mistero significhi far vivere l’umanità della liturgia. Il Mistero cristiano, infatti non è declinabile nella sacralità ma nell’umanità. Dio si è rivelato nell’umanità di suo Figlio Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo. Dunque la seconda necessità per la liturgia di oggi è far vivere l’umanità della liturgia. Appello per una liturgia più umana. Più sarà umana più sarà esperienza del Mistero!
La liturgia fa il cristiano
Il cristiano è l’opera della liturgia; essa lo forgia, lo forma e lo conforma. Per questo, la liturgia non è l’effetto ma l’origine. È molto più grembo e matrice che non prodotto e risultato. La liturgia ci precede e ci sta innanzi, a essa si è infatti convocati. Vi si accede come a una realtà di cui non si dispone totalmente e di cui tanto meno si è padroni. In essa si è accolti e ospitati senza restare estranei, si è invitati e commensali che condividono ciò che nutre la loro fede. Quando si accede alla liturgia non si decide solo di entrare in uno spazio per dedicarvi del tempo, si sceglie piuttosto una postura, cioè si sceglie e aderisce a un modo di essere uomo o donna, si persegue una maniera di stare al mondo davanti a Dio e agli altri, in definitiva si acconsente a una vera e propria metamorfosi, quella di “essere fatti cristiani”.
L’accedere alla liturgia per una vita intera, domenica dopo domenica, anno dopo anno, a volte anche in modo abitudinario e svogliato è ciò che tiene in vita il nostro “essere cristiano”, personale come comunitario. A volte percepiamo che prendere parte alla liturgia è la risposta a una chiamata interiore. Noi entriamo nella liturgia ma in realtà è lei che entra in noi, scende nelle fibre del nostro essere credente, plasma il nostro “uomo interiore” (Ef 3,16), lo coltiva con la cura di una madre, lo nutre con la sapienza di un maestro. La liturgia fa di noi figli e discepoli: figli della Chiesa e discepoli del Vangelo. Senza liturgia, cioè senza il nutrimento della parola di Dio e del pane sostanziale dell’eucaristia, senza l’azione della Spirito santo in noi, la consolazione del perdono e l’olio della fraternità, la nostra fede deperisce, degenera, muore. Sì, la fede può morire. La liturgia agisce su noi credenti infinitamente più di quanto noi ne abbiamo piena consapevolezza. Essa dà molto più di quanto noi gli domandiamo, in essa troviamo più di quello che cerchiamo. La liturgia cristiana non è un mero appagamento dei bisogni religiosi primari dell’essere umano, non si accontenta di dare una forma cristiana all’innato sentimento religioso. Come il Vangelo, la liturgia cristiana porta dalla condizione dihomo naturaliter religiosusa quella dihomo christianus,mulier christianaportandoli “fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo” (Ef 4,13).
Interrogato sulla sua esperienza della liturgia, Paul Ricoeur ho risposto: “Sono grato alla liturgia di strapparmi alla mia soggettività, di offrirmi non le mie parole, non i miei gesti, ma quelli della comunità. Sono felice di questa oggettivazione dei miei stessi sentimenti; inserendomi nell’espressione cultuale vengo sottratto all’effusione sentimentale; entro nella forma che mi forma; facendo mio il testo liturgico divengo io stesso testo che prega e canta”.[1] Affermare “entro nella forma che mi forma”, come fa Ricoeur, significa riconoscere che per formare il mio “essere credente” devo saper rinunciare a ogni pretesa di darmi da me stesso la forma di cristiano e di conseguenza di dare forma ad una liturgia a misura dei miei desideri, dei miei gusti o, peggio ancora, delle mie nostalgie. Come il Vangelo e la Chiesa anche la liturgia ci precede sempre, per questo “entro nella forma” e, per quanto possa portarvi di mio, la mia è sempre una risposta all’invito: “Venite, è pronto!” (La 14,17) Sì, “è pronto”, già imbandito da tempo e questo significa che ogni volta che accedo alla liturgia non devo inventare parole da dire, cercare testi da ascoltare, improvvisare gesti da fare, trovare posture da assumere. Entriamo in una realtà che ci precede perché è il fondamento già posto: è la Parola già pronunciata, è il gesto salvifico già compiuto, è la fede della Chiesa già professata.
Chi nella liturgia non è in grado di mutare la gestualità del proprio corpo sulla base di un rito codificato e condiviso, come può pensare di realizzare una trasformazione interiore e di intraprendere un mutamento dello spirito affinché si realizzi una comunione spirituale vera e tangibile? Sono ormai lontani gli anni nei quali le norme liturgiche erano guardate con sospetto e insofferenza. Atteggiamenti che erano retaggi di un clima di reazione nei confronti di ogni tipo di regole, di leggi e di osservanze. Oggi si comprende che quando l’ordo liturgico è osservato con spirito intelligente e lontano da ogni angusta rigidità, esso contiene e trasmette una sapienza millenaria. L’ordo liturgico è infatti la fede della Chiesa espressa nella semplicità di un gesto, nella nobiltà di un movimento, nella compostezza di una postura, nella sobrietà di una parola che si vuole misurata affinché possa essere profonda ed efficace. Chi è del tutto incapace di sottomettersi umilmente a una regola liturgica sappia che, presto o tardi, da celebrante del mistero si scoprirà mestierante del sacro. Il confine tra celebrante e mestierante è sottile per tutti, per i presbiteri come per i laici. Il ritualismo è la liturgia diventata mestiere, assuefazione, finanche mania e ossessione. In tal caso, la liturgia non è più “la forma che mi forma”, ma la forma che mi rende rigido, mi sclerotizza e dunque mi deforma.
Affermare che la liturgia fa il cristiano significa che io accetto senza preconcetti e senza riserve ciò che nella liturgia della Chiesa è già dato. Fino a quando nella liturgia non giungerò a esperimentare una ricettività convinta e intelligente non accetterò mai che essa formi il mio essere credente. Questa attitudine anzitutto interiore e spirituale richiede abnegazione e rinuncia, spogliazione e finanche sacrificio. Entrare in Chiesa per una liturgia significa, a ben guardare, accettare di non essere il padrone ma l’invitato, non l’autore ma l’interprete, non di disporre del rito ma di dispormi al rito. Rinuncio al dominio sullo spazio, al controllo del tempo, al potere sul rito, al comando sulle altre persone presenti, in definitiva rinuncio alla signoria su me stesso ma soprattutto sugli altri e su Dio. Non decido i testi da leggere ma faccio obbedienza a un lezionario. Non scelgo arbitrariamente le orazioni ma prego i testi che il Messale dispone. Non seleziono i riti da compiere, ma osservo unordoantico di secoli. Non decido la festa da celebrare ma seguo il calendario liturgico stabilito. Non scelgo i fratelli e le sorelle con i quali formare l’assemblea santa ma li riconoscono presenti, anch’essi come me convocati. È dunque necessario che il cristiano si consegni alla liturgia, si affidi totalmente, permettendo che essa agisca per lui e operi in lui.
Se ogni volta nella liturgia si dovesse inventare tutto di nuovo e creare tutto da capo, sarebbe davvero un essere convocati, un entrare in un luogo e un tempo altri, segni e significati di una presenza altra, santa? Comprendere in verità cosa voglia dire che la liturgia fa il cristiano, che essa è “la forma che mi forma”, significa accettare che la liturgia della Chiesa non solo previene i miei pensieri, i sentimenti, le concezione, i gusti e le affinità naturali, ma a volte anche che si oppone al mio sentire, lo contraddice contestandolo.
Quando il credente sa in verità ricevere il già donato della liturgia, quando sa consegnarsi a essa rinunciando a ogni possesso e ogni manipolazione, allora intuirà ciò che alla liturgia in modo attivo, libero e intelligente dovrà necessariamente apportare di suo. Questo apporto è essenziale alla liturgia cristiana. Una dinamica liturgica autentica richiede infatti il sapiente equilibrio tra il già costruito e il da costruire, il già composto e il da comporre[2]. In questo senso il cristiano fa la liturgia tanto quanto la liturgia fa il cristiano, in perfetta circolarità e in piena sinergia.
Prima necessità: far vivere la liturgia come spazio di santità ospitale. Appello per una liturgia ospitale.
Se la liturgia da sempre fa il cristiano, vorrei ora cercare di riflettere con voi su quello che sono, a mio parere, le due necessità affinché oggi la liturgia possa essere vissuta dai credenti come una risorsa per la loro vita umana e spirituale. Certo, per i credenti più assidui ma anche per quelli più occasionali per i quali la liturgia, in particolare i sacramenti, sono l’unico sottilissimo e fragile filo che li tiene uniti alla Chiesa. La prima necessità è quella di vivere e far vivere la liturgia come spazio di santità ospitale. In breve, il bisogno oggi che le nostre liturgie siano più ospitali.
Uno dei nostri canti liturgici più amati è l’invito che i discepoli di Emmaus rivolgono a Gesù risorto “Resta con noi, perché si fa sera”. “Resta con noi …”, è la parola che trasforma lo straniero in ospite. “Egli entrò per rimanere con loro”: si è ospiti quando si entra e si resta. Siamo al vertice del racconto di Emmaus: Gesù entra e, come gli hanno chiesto, resta con i due discepoli e ben tre volte in due versetti si sottolinea la compagnia di Gesù, quasi a dire che quello stare di Gesù con i due discepoli è particolarmente intenso, carico di significati: “Rimani con noi …. Entrò per rimanere con loro … ” (Lc 24,30-31). Ed ecco, l’invitato è lui che compie il gesto di chi presiede la tavola: spezza il pane e lo dona. L’ospite è lui che accoglie gli ospiti a dire che l’ospitalità è riuscita quando chi invita e accoglie è a sua volta accolto da colui che ospita. Tutto il racconto di Emmaus è la narrazione di un’ospitalità reciproca.
Ma ben guardare, con i discepoli di Emmaus il Risorto istaura la stessa relazione che nella sua vita creava con le persone di ogni tipo che andavano a lui. L’ospitalità è un’attitudine dell’essere di Gesù di Nazaret, una sua postura, il suo modo di stare al mondo e di entrare in relazione. La sua è una “santità ospitale”, come l’ha definita il teologo Christoph Theobald[3], che si sottrae per creare attorno a sé uno spazio di libertà, di riconoscimento, comunicando, con la sua semplice presenza, una prossimità benevola nei confronti di coloro che lo incontrano. Ma in cosa consiste questa “santità ospitale” di Gesù che anche i discepoli di Emmaus esperimentano? È nient’altro che il tipo di relazione che si istaura e l’effetto che essa produce: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi” riconoscono i due.
E’ dunque sempre più urgente che le nostre liturgie siano capaci di ricreare quel tipo di relazione che Gesù di Nazaret sapeva creare con le persone che incontrava. L’intera esistenza di Gesù è stata una liturgia ospitale, e anche le nostre liturgie sono chiamate a esserlo oggi più che mai. Per questo, negli anni che ci stanno davanti la santità della liturgia sarà chiamata a declinarsi come santità ospitale; non una santità di distanza ma di prossimità. Una liturgia ospitale non è una moda o uno stratagemma pastorale ma è la postura stessa di Cristo che anche Risorto si fa cammino, presenza, prossimità benevola, ascolto, parola, pane spezzato.
Per questo, se le nostre liturgie, e in particolar modo le eucaristie domenicali, vorranno essere luoghi di misericordia, non potranno ignorare le profonde trasformazioni sociali, culturali e antropologiche in corso, i cui esiti sono difficilmente prevedibili. La liturgia, così come la nostra pastorale sacramentale, non può non lasciarsi interrogare da quel fenomeno che sempre più osservatori definiscono “disturbo nella definizione dell’umano”. L’umano non è il destinatario passivo delle nostre liturgie ma è la materia stessa di cui sono fatte. Ignorare queste trasformazioni significherebbe non sapere più di quale umanità sono formate le nostre assemblee liturgiche. Questa è una liturgia in uscita, per quella “Chiesa in uscita” di cui spesso parla papa Francesco.
Dobbiamo sempre più convincerci che la Chiesa che celebra la liturgia è la stessa che va verso le periferie esistenziali, per la semplice ragione che oggi, per un numero sempre più grande di persone, la liturgia è soglia al mistero di Dio. Negheremmo l’evidenza dei fatti se non ammettessimo che la pastorale dei sacramenti è oggi chiaramente una pastorale missionaria. La domanda del battesimo per i figli e le tappe della loro iniziazione, la richiesta del matrimonio cristiano, l’esperienza del male e della colpa, le dolorose prove della malattia e della morte, anche queste sono le periferie esistenziali verso le quali la Chiesa è impegnata a uscire. Uscire, leggiamo inEvangeliigaudium, significa non stare in attesa ma prendere l’iniziativa, coinvolgersi, accompagnando l’umanità. Chi ha esperienza dell’umano sa che bene che nell’ordinaria pastorale dei sacramenti la Chiesa è condotta agli incroci delle strade, la dove si incontra l’umanità reale. Sì, la pastorale dei sacramenti è l’odierna Galilea delle genti.
All’uomo, alla donna che oggi fatica a dare un senso alle grandi tappe della sua vita, i sacramenti offrono la luce del progetto di Dio sulle sue creature. Vita, amore, morte sono, ieri come oggi, le parole dell’umanizzazione, e la richiesta ancora molto ampia in Italia che i sacramenti della Chiesa segnino le grandi tappe della vita, impegna la Chiesa italiana a uscire incontro a questa domanda, non tanto per assecondare tradizioni religiose e abitudini sociali, ma uscire per discernere nella domanda dei sacramenti quel sentimento, più o meno confuso e tuttavia ancora presente nella gente, che nel venire alla vita, nell’amare e nel morire si gioca qualche cosa di essenziale e decisivo per la loro vita. I sacramenti della Chiesa sono un cammino di umanizzazione evangelica.
Per questo, le nostre liturgie non potranno non confrontarsi con la progressiva mutazione e frammentazione dei modi di credere che l’avanzare della secolarizzazione produce, specie tra i giovani e in particolare le giovani donne. Dobbiamo costatare che spesso le nostre liturgie sono impostate su un modo di credere che, con il tempo, sarà sempre più diverso rispetto a quello che abbiamo conosciuto fino ad oggi.
Di fronte a tutto questo, le nostre liturgie e in particolare le nostre eucaristie domenicali, per essere cammini di misericordia e di speranza, saranno chiamate a diventare sempre più spazi di santità ospitale. E l’ospitalità è accoglienza, ristoro, riposo, sosta, riconoscimento. Liturgie dove le persone possano trovare conforto, consolazione e sollievo. La liturgia che ci attende, sarà la figura del Cristo che proclama: “Venite a me voi tutti affaticati e oppressi e io vi darò riposo” (Mt 11,28). Misericordia non solo per i peccati intesi come singoli atti, ma misericordia nei confronti delle condizioni di vita, delle situazione esistenziali segnate spesso da fragilità, debolezza, fatica. Misericordia di fronte a risposte sbagliate date a giuste domande di senso, di fronte a evidenti fallimenti esiti di un autentico desiderio di felicità.
Dunque, una liturgia che sia credibile agli occhi di cristiani e di cristiane sempre più secolarizzati, cioè sempre più disincantanti che cercano di essere credenti e non creduli, non semplici praticanti di una religione ma discepoli del Vangelo. Una liturgia credibile è quella guidata e animata da persone credibili, la cui autorevolezza, nella cultura contemporanea, non è più data dalla funzione o dall’ufficio ma dalla coerenza tra ciò che dicono e ciò che sono. Sarà spazio di misericordia una liturgia dove le parole sono portatrici di senso e non formule recitate e dove i segni sono testimoni di una rivelazione. Tutti i segni liturgici, infatti – siano essi riti, gesti ma anche gli abiti, canti, musiche e opere d’arte – sono i segni di una verità consegnata alla fede dei credenti.
Seconda necessità: far vivere l’umanità della liturgia.Appello per una liturgia più umana
Da alcuni anni, nella Chiesa, si sta maturando la consapevolezza che cammino spirituale e cammino di umanizzazione formano un tutt’uno. Questo significa che sta lentamente crescendo la convinzione che ciò che è autenticamente spirituale è anche autenticamente umano. Da qui sembra emerge che per i credenti e le credenti di oggi, quelli più adulti nella fede e consapevoli, capaci di un discernimento al tempo stesso della vita dell’umanità e della vita della Chiesa, l’esperienza di fede cristiana è chiamata a declinarsi come cammino di umanizzazione e che evangelizzare oggi significa umanizzare alla luce dell’umanità di Gesù Cristo. Ma questo cammino non può prescindere dalla comprensione della liturgia come risorsa di umanità. La liturgia, infatti, assume, trasfigura e converte tutto l’umano, perche nel gesto sacramentale l’agire di Dio e l’agire dell’uomo operano in sinergia: spirituale e umano sono uno. Tutto l’umano entra nell’azione liturgica, e non può essere diversamente se tutto l’uomo – corpo, spirito e intelligenza – è implicato nella liturgia.
Riconosciamolo senza timore, negli anni scorsi si è tentata una risacralizzazione della liturgia con un’erronea idea di mistero, io sono invece convinto che negli anni che ci stanno davanti sarà più che mai necessario proseguire quel cammino di umanizzazione della liturgia avviato dal Concilio. La santità della liturgia si mostrerà nella sua umanità, così come la divinità di Cristo si è rivelata nella sua umanità. Più la liturgia sarà autenticamente umana più sarà profondamente divina. Perché l’unico volto della trascendenza è il volto umano.
Incamminare le comunità cristiane verso la ricerca di una sempre maggiore umanità della loro liturgia significa far si che i credenti assidui come quelli occasionali, attraverso l’umanità della parola e del gesto liturgico, l’umanità dell’ambiente e dello stile liturgico, entrino in contatto e facciano esperienza dell’umanità di Dio rivelata nell’umanità di Gesù Cristo. Dobbiamo essere abitati dalla certezza che quell’umanità di Gesù diventata narrazione evangelica può anche diventare ritualità liturgica. I sacramenti della Chiesa sono infatti rivelazione dell’umanità di Dio e narrazione dell’umanità di Cristo.
La vita liturgica della comunità sarà davvero via di umanizzazione nella misura in cui la liturgia sarà celebrata e vissuta come ricettacolo dell’humanitas Christi. Gesù Cristo ha rivelato Dio attraverso la sua umanissima vita: comunicava con un linguaggio comprensibile da tutti, dai dotti farisei alla gente più semplice e incolta, con parole chiare che non avevano bisogno di ulteriori spiegazione e per questo riconosciute autorevoli. Faceva gesti molto semplici e quotidiani e li rendeva eloquenti, capaci di dire la sua compassione, la prossimità all’umano in tutte le sue condizioni. Gesti capaci di rispondere alle attese e alle domande della gente che andava a lui e, al tempo stesso, capaci di esprime il suo desidero profondo nei loro confronti. Gesti umanissimi attraverso i quali ha rivelato l’amore di Dio e la venuta del suo Regno. Cos’altro è la liturgia cristiana se non la parola e il gesto di Cristo nella parola nel gesto del suo corpo che è la Chiesa? Il Cardinal Martini, in un uno dei suoi rari interventi sulla liturgia, ha affermato:
“Se nei vangeli si parla poco o nulla di liturgia, ciò avviene perché essi sono di fatto una liturgia vissuta con Gesù in mezzo ai suoi … E’ questa la liturgia dei vangeli: essere attorno a Gesù nella sua vita e nella sua morte … La liturgia è stare oggi intorno alla persona del Signore, ascoltarlo, parlargli, pregarlo, lasciarlo pregare per noi. Tutto ciò che i vangeli riferiscono di Gesù tra la gente è un’anticipazione della liturgia e, a sua volta, la liturgia è una continuazione dei vangeli”[4].
Parlare di liturgia umana significa questo: la liturgia come continuazione dei Vangeli. La liturgia della Chiesa sempre più simile all’umanissima liturgia dei Vangeli, in una sempre maggiore trasparenza cristologica. Una liturgia capace di essere sacramento dell’umanità di Cristo, capace di accogliere e trasfigurare tutta l’umanità di chi la celebra. Così l’umanità della liturgia sarà, nell’oggi della Chiesa, l’espressione più eloquente del mistero dell’incarnazione del Verbo. La liturgia è umana quando è fedele all’umanità di Gesù Cristo: solo così sarà fedele all’uomo e alla donna di oggi. E quanto più sarà evangelicamente umana, tanto più sarà autenticamente cristiana.
Questa è la riflessione che questa sera sottopongo alla vostra attenzione, al vostro discernimento spirituale e pastorale. Una liturgia fedele al Vangelo e al tempo stesso fedele all’uomo e alla donna di oggi, consapevoli che, come disse il cardinale Giovanni Battista Montini intervenendo in Concilio il 22 ottobre 1962 nella discussione sulla liturgia: “Liturgia nempe pro hominibus est instituita, non homines pro liturgia”[5]. La liturgia è per gli uomini, non gli uomini per la liturgia!
[1] P. Ricoeur, “Epilogo”, in J.M. Paupert,Taizé e la Chiesa di domani, Torino 1968, pp. 257-264, p. 262.
[2] F. Cassingena-Trévedy, “La liturgie: se laisser faire par le Christ”, inChronique d’Art Sacré84 (hiver 2005) pp. 12-14.
[3] Ch. Theobald,Il Cristianesimo come stile, Un modo di fare teologia nella postmodernità, II Voll., Edizioni Dehoniane, Bologna 2009.
[4] C.M. Martini, “La liturgia mistica del prete. Omelia nella Messa crismale”,Rivista della Diocesi di Milano89/4 (1998), pp. 641-648, p. 642.
[5]Acta Synodalia, I/1, Città del Vaticano 1970, p. 315.