a cura di Giovanni di Rubba
Nicola Lecca, già finalista del Premio Strega nel 1999, con il romanzo d’esordio Concerti Senza Orchestra, e vincitore di numerosi premi con opere tradotte in tutto il globo, con il Treno di Cristallo (Mondadori, 249 pp.) ha raggiunto l’apice del suo estro, una summa del suo ricchissimo bagaglio di sapere che spazia dalla filosofia alla musica, un sapere figlio della sua cultura nomade.
Fragili e lievi le parole scorrono come le partiture di una sinfonia, in bilico tra fragilità dell’essere e respiro dell’assoluto: Il Treno di Cristallo si presenta come un on the road spirituale, si assapora la leziosia dell’esistenza, la ricerca del bello, in un viaggio che comincia con il disincanto, la freddezza, la vacuità del nulla, una viola schiusa e scossa dalla monotonia di un inverno dell’anima che finirà con lo sbocciare in una inattesa primavera della vita.
È la storia del diciottenne Aaron, figlio di Anja, madre depressa, ignaro del padre e del suo passato, di origini Croate; vissuto a Broadstairs, in Inghilterra, si alterna tra il lavoro di gelataio, la cura per la madre - che ha una ossessione per il figlio e gli nega ogni libertà temendo di perderlo - e il tempo trascorso a chattare con una ragazza di cui non sa niente e che rifiuta continuamente di incontrarlo. Poi arriva una lettera di un notaio da Zagabria che gli annuncia ad Aaron che il padre è appena morto, che presto sarà aperto il testamento e che lui nel frattempo, per la volontà proprio del padre potrà visitare città dell’Est a sua scelta prima di giungere al suo studio per scoprire la verità: inizia un viaggio tra gli squallori di città di periferia, in una Amburgo capitale del sesso, una Praga tanto fascinosa e magica quanto ingannevole, una Bratislava lynciana ed una Lubiana ove tutto sa di finto, tranne il latte ed una ragazza, Colette, agli occhi di Aaron, fragile e poco pragmatica, ma dalla spiccata sensibilità e dall’animo profondissimo. Questo girovagare alla ricerca delle sue origini e della verità su suo padre e sul suo passato, Aaron diverrà un vero e proprio Cammino di Santiago, una crescita interiore. Figlio di un padre freddo, un pianista cardiopatico e sociopatico che ha abbandonato la madre, il nostro protagonista riuscirà a divenire un vero artista della vita, a coglierne il senso e a combattere, con pacatezza e dolcezza, ma con una determinazione ed una forza che non conosceva, tutte le lusinghe e le falsità della realtà, virtuale e non, e persino le trappole della depressione e della patologia mentale. Tutto non da solo ma con l’aiuto degli altri, che per lui non sono oggetti, come la società vorrebbe, ma persone.
Un ragazzino di diciotto anni riesce ad imparare ed a trarre il meglio dagli altri, impara a perdonare ed amare, a rinascere, araba fenice. A trovare l'amore, il senso nascosto della musica, l’armonia dell’universo e della sua interiorità. Lo riesce a fare perché è fragile e indifeso, perché si appoggia agli altri, ma non li manipola, perché impara dagli altri, come dall’amico Gennarino, il suo collega gelataio, di origini napoletane e molto più pragmatico di lui. Anche la mano di Dio lo accarezza, attraverso la suora che incontra nel treno per Bratislava che gli fa capire che bisogna sempre continuare a suonare, per chi ci ascolta e rispettare chi non vuol ascoltare.