a cura di Anna Paola Borrelli
docente di Teologia Morale all'Issr Duns Scoto
Un tweet dell’8 agosto scorso del ministro della Salute Robert Speranza ha preannunciato l’aggiornamento circa le Linee di indirizzo sull’interruzione volontaria di gravidanza con mifepristone e prostaglandine.
Quattro giorni dopo è stata emanata la circolare dal Ministero della Salute che va a mutare le linee di indirizzo che per dieci anni sono state applicate su tutto il territorio nazionale. Precedentemente soltanto cinque Regioni su venti adoperavano già il regime in day hospital, mentre in tutte le altre era previsto il ricovero ordinario di tre giorni. La circolare ministeriale del 12 agosto ha introdotto due novità importanti: il ricovero in regime di day hospital e l’estensione dell’assunzione della RU 486 dalla 7ª alla 9ª settimana di gestazione.
«Prima di valutare le novità di queste linee guida – asserisce la Pontificia Accademia per la Vita – è importante sottolineare ancora una volta come a restare ampiamente disattesa sia rimasta la parte della legge 194 intorno alla quale poteva e potrebbe ancora essere cercata e alimentata un’idea di civiltà condivisa. Parliamo dell’impegno a dare davvero alla donna (e alla coppia) tutto il sostegno possibile per prevenire l’aborto, superando quelle condizioni di disagio, anche economico, che possono rendere l’interruzione della gravidanza un evento più subìto che scelto, in quanto esito di circostanze avverse nelle quali diventa difficile o addirittura insostenibile l’idea di avere un figlio».
In Italia si abortisce per i motivi più disparati e il principale, stando ai dati raccolti dai Centri di Aiuto alla Vita locali, resta quello economico e lavorativo-abitativo. La piaga della disoccupazione, l’affitto o un mutuo da pagare sono spesso causa di aborto. Ci si trincera dietro la possibilità di rendere l’aborto quanto più fruibile e alla portata di tutte, ma in fondo manca il coraggio di guardare “oltre”. Oltre le problematicità, oltre gli ostacoli che rendono difficile vivere la propria vocazione alla maternità. E non si fa nulla o troppo poco per aiutare le donne a rimuoverli. È lo stesso articolo 5 della legge 194/78 a ricordarcelo. Bisogna «esaminare con la donna e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta […] le possibili soluzioni dei problemi proposti, […] aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione di gravidanza, […] metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e madre, […] promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto».
Assumere la Ru 486 in ospedale e poi espellere il feto morto a casa sotto i propri occhi potrebbe portare alcune donne a vivere il proprio dolore in una tremenda solitudine che amplificandosi andrebbe a sfociare nella sindrome post-aborto. Senza considerare poi tutte le reazioni avverse, che potrebbero esserci, alcune conosciute, altre che hanno invece determinato la morte di 29 pazienti, di cui 17 direttamente correlate all’IVG. La circolare estende anche l’utilizzo della RU 486 fino alla 9ª settimana. Pur tuttavia, i moderni studi sull’embriologia e la psicologia prenatale stanno dimostrando costantemente che ci troviamo dinanzi ad un essere umano, dotato di un’esperienza sensoriale-intellettiva. Nonostante ciò si continua ad omettere la sua identità.
Infine, con l’aborto in regime di day hospital c’è il rischio di una banalizzazione e deresponsabilizzazione verso ciò che si sta per fare. Nell’immaginario collettivo i farmaci abortivi rischiano di essere messi sullo stesso piano di un qualsiasi antinfiammatorio che allevia il dolore. Eppure non si tratta di farmaci come gli altri. Questi spengono ogni barlume di luce, annientano una vita che sta per sorgere. Che non è qualcosa, ma qualcuno con una grande, straordinaria, infinita dignità.