a cura di don Raffaele Rianna,
direttore dell'Ufficio Liturgico
In questi giorni santi in cui dobbiamo rimanere a casa, Papa Francesco ci invita a stare davanti al Crocifisso e a chiedere la grazia di vivere per servire; a guardare Gesù servo, che ci serve dando la vita per noi, per sentire la consolazione di Dio nel dramma della pandemia e riscoprire che «la vita non serve se non si serve. ...Dio ci ha salvati lasciando che il nostro male si accanisse su di Lui. Senza reagire, solo con l’umiltà, la pazienza e l’obbedienza del servo, esclusivamente con la forza dell’amore. E il Padre ha sostenuto il servizio di Gesù: non ha sbaragliato il male che si abbatteva su di Lui, ma ha sorretto la sua sofferenza, perché il nostro male fosse vinto solo con il bene, perché fosse attraversato fino in fondo dall’amore. Fino in fondo» (Francesco, Omelia. Domenica delle Palme 2020).
È quanto profeticamente raccontato da Isaia nei Carmi del Servo Sofferente, i brani della Scrittura che la liturgia ci propone in questi primi giorni Santi (Is 42,1-7; Is 49,1-6; Is 50,4-9) e che hanno compimento nel gesto sconvolgente del Maestro che lava i piedi ai discepoli (Gv 13,1-15), il gesto più eloquente del Giovedì Santo che, insieme alla frazione del pane diventa l’eredità che Gesù ci consegna: «fate questo in memoria di me» (Lc 22,19; 1Cor 11,23-25); «come ho fatto io fate anche voi» (cfr. Gv 13,15).
Il Giovedì Santo è per noi sacerdoti un giorno ricco di “memoria”. È un po’ come tornare a casa, ritrovarsi con i fratelli del presbiterio intorno al vescovo padre, maestro e testimone di comunione, per immergersi in quella fraternità che ci unisce, al di là delle umane simpatie. È ritrovarsi per far festa e “sentire” con i sensi dell’anima, il rinnovarsi del profumo del Crisma che ha unto le nostre mani nel giorno dell’ordinazione. Quest’anno non saremo in Cattedrale a Nola, presso la tomba dei Santi Felice e Paolino, a rinnovare con la nostra debolezza le promesse sacerdotali, a stendere silenziosamente le mani, mentre lo Spirito di Dio «impregna della sua forza e della potenza che emana dal Cristo, dal cui santo nome è chiamato crisma, l'olio che consacra i sacerdoti, i re, i profeti e i martiri» (cfr. Preghiera di Benedizione del Crisma). Ma il “Sì, lo voglio!” della promessa eterna, risuonerà in questo tempo difficile, come una sentinella di fedeltà a Dio e all’uomo, mentre le campane delle nostre Chiese, al canto vespertino del Gloria in excelsis, faranno udire la loro voce adesso più che mai anche nei luoghi lontani, tra le strade silenziose e deserte per poi legarsi anch’esse alla croce e attendere il canto dei redenti.
È il vangelo di Giovanni a ricordarci il senso della vita: “l’amore sino alla fine”, un amore che ci chiama in modo diverso: “non servi, ma amici” (cfr Gv 15,15), un amore che “prende corpo” nel pane spezzato e nel vino versato, instaurando relazioni e presenze nuove; un amore di cui nutrirci per far fiorire di solidarietà il deserto che stiamo vivendo, un “amore eucaristico” da adorare per tutta la notte attraverso la bellezza dei fiori, la luminosità dei ceri, il profumo delle resine preziose, il silenzio contemplativo della nostra preghiera. “Pange lingua gloriosi”, ci fa cantare l’antico inno di San Tommaso d’Acquino (XIII sec.), 'canta o lingua il mistero del Corpo glorioso e del Sangue prezioso'; adoriamo, pieghiamo le ginocchia, perché è in ginocchio che siamo tutti uguali.
«Il Giovedì Santo non è solo il giorno dell’istituzione della Santissima Eucaristia, il cui splendore certamente s’irradia su tutto il resto e lo attira, per così dire, dentro di sé. Fa parte del Giovedì Santo anche la notte oscura del Monte degli Ulivi, verso la quale Gesù esce con i suoi discepoli; fa parte di esso la solitudine e l’essere abbandonato di Gesù, che pregando va incontro al buio della morte; fanno parte di esso il tradimento di Giuda e l’arresto di Gesù, come anche il rinnegamento di Pietro, l’accusa davanti al Sinedrio e la consegna ai pagani, a Pilato» (Benedetto XVI, Omelia. Giovedì Santo 2012). È una notte di lotta, in cui Gesù sperimentando l’angoscia della morte, ci invita a “vegliare e a pregare per non entrare in tentazione” (cfr. Mt 26,41).
Perché pregare? — ci chiediamo —soprattutto in questi giorni così difficili. «Preghiamo per affrontare. Preghiamo perché la misteriosa mano della Provvidenza ci aiuti a salvare ciò che conta. Non si tratta di salvare solo la vita, ma di salvare anche ciò che rende la vita degna di questo nome. Preghiamo perché la vita abbia sempre il sopravvento sulla morte, anche quando la morte si presenta a noi come angoscia, scoraggiamento, impotenza. Non dobbiamo pregare per convincere Dio a salvarci. Di questo penso che ne sia già abbastanza convinto da solo. Dobbiamo pregare per non dimenticare noi che Dio è dalla nostra parte. Dobbiamo pregare perché possiamo convincerci che in qualunque modo finirà la nostra storia, essa finirà nelle braccia di Qualcuno che consideriamo Padre. In questo senso questa è l’ora in cui dobbiamo intensificare la preghiera. E poter pregare anche per chi non crede, per chi non ha più le parole giuste, per chi è schiacciato o si sente particolarmente solo. Pregare salva la vita, perché ci ricorda che ciò che conta non è soggetto a nessun virus». (L. M. Epicoco, 5.4.2020).