La decisione di papa Francesco di recarsi ad Alessano e Molfetta, il prossimo 20 aprile, per additare alla Chiesa un altro esempio di tenerezza pastorale, mi ha riportato alla mente quel cartoncino che il parroco del duomo di Molfetta, aveva apposto vicino al crocifisso: «collocazione provvisoria» e che a don Tonino Bello piacque tanto che non lo fece più rimuovere.
Ho sempre considerato il discepolo missionario di Cristo una persona che non va in cerca di una nuova patria, di una nuova Chiesa, di un posto migliore dove essere cristiano, di gente che lo soddisfa nella sua ricerca di un ideale immaginario. Mi è piaciuto invece proporre il discepolo missionario come una persona che sospinta dall’amore divino va’ al mondo al passo del povero per raccontare il suo incontro con il Signore Gesù che gli ha parlato del Padre suo perché conoscendolo potesse anche lui divenire l’amato del Padre.
Il discepolo missionario deve considerarsi sempre in «collocazione provvisoria», pronto a lasciare e ad andare dovunque lo Spirito Santo ghermendolo lo porterà, docile e predisposto ad incontrare quelli che gli saranno messi accanto, prendendo la cadenza dei loro passi, fermandosi e interrompendo il cammino per restare con loro quando li vede piagati, affaticati e incapaci di andare oltre, una persona che deve adattarsi a spartire «il pane e la tenda». La sua «provvisorietà» deve essere lo strumento che gli permetterà di non dimenticare che lui è persona di futuro, che è mandato ad aprire, teneramente, ogni finestra perché la novità progettata insieme, osata insieme, sacrificandosi insieme, entri nella vita di coloro che attendono l’aria fresca del Vangelo.
«Da soli non si cammina più», scriveva don Tonino ne «La lampara». Lo specifico di quelli che mettono in gioco la loro esistenza per il Vangelo deve essere la genialità di esplorare la gioia, di andare in cerca di quella perla preziosa nelle periferie della Terra, tra le culture più diverse, nei bassifondi della povertà affinché quel dono di Dio venga alla luce, tagliato come un diamante, perché lo splendore imprigionato dal superfluo possa risplendere e far rifiorire il cuore umano. Il discepolo missionario deve essere la persona che indossato il grembiule del servo, non l’abito regale, si mette in ginocchio per divenire schiavo degli ultimi del mondo. Chi annuncia il Vangelo deve abitare la provvisoria casa degli uomini e non l’eterno olimpo degli dei, dove non manca nulla e ai poveri è vietato l’ingresso. Chi non «sta» con gli ultimi non si lascia coinvolgere dalla loro vita, non si sporca della polvere dei loro passi, non riesce a guardare e capire la storia dalla loro parte, non impara a cantare la bellezza con gli occhi dei poeti di quelle terre in cui lascia cadere il seme del Vangelo senza meravigliarsi se il colore, il sapore e l’odore del frutto maturo sarà diverso da come lui si aspettava.
I discepoli missionari devono essere uomini e donne fino in fondo, ma sempre in «collocazione provvisoria», pronti ad accompagnarsi a quei popoli che appartengono solo a Colui che li conduce a libertà, preparati a morire sul monte mentre essi entrano nella terra promessa del Regno. Il mandato dal Signore deve lasciarsi cesellare per essere abile di comprensione e di perdono, di accoglienza e di sorriso, di lacrime e di ebbrezze, disponibile all’ascolto e all’attesa, pronto al credito e al compatimento, all’indulgenza e all’incoraggiamento, preparato a scommettere e a ricominciare, a parlare i linguaggi della povertà e a non scandalizzarsi per le miserie altrui, a capire le lentezze e ad accelerare i segni della speranza. Un esperto in umanità! Fino in fondo, anzi fino in cima! Perché essere uomini e donne fino in cima, senza fermarsi a mezzacosta, significa capire che il calvario è l’ultima tappa di ogni scalata, e che la croce non è la sconfitta dell’uomo, ma la vetta gloriosa che permette di guardare all’umanità dall’altezza del cuore di Cristo.