David Foster Wallace, scrittore di culto, morto suicida nel 2008, nel bel mezzo dei suoi studi universitari, trascorse un anno lavorando per il Centro controlli regionale dell'Agenzia delle Entrate di Peoria, nell'Illinois. Il romanzo “Il re pallido”, pubblicato dopo la sua morte grazie al paziente lavoro dei suoi editori – che hanno riorganizzato qualcosa come 3000 pagine – è il racconto di quei mesi, trasfigurati in una grande epica della noia, che fluisce goccia a goccia tra dichiarazioni dei redditi e dispositivi del governo americano in materia fiscale.
La noia affrontata da Wallace però, come hanno già notare i suoi molti commentatori, non è in prima battuta quella degli esistenzialisti, ma è di un genere più puro, fondamentale, fenomenologico: la noia chimica della ripetizione dei nostri gesti quotidiani nella catena di montaggio inesorabile dell’esistenza moderna. Ed è qui che burocrazia ed esistenza si incontrano e devono legarsi («Ho imparato che il mondo degli uomini così com'è oggi è una burocrazia. È una verità ovvia, certo, per quanto ignorarla provochi grandi sofferenze» p. 566). Possiamo fuggire e correre ad accaparrarci la nostra dose di eccitazione nei rari momenti di pausa dai nostri “doveri”, ma come aveva giù insegnato Pascal – citato esplicitamente nel romanzo – prima o poi ci troveremo davanti alla limpida e inquietante verità su noi stessi, e cioè «che siamo minuscoli e alla mercé di grandi forze e che il tempo passa incessantemente (…) che tutto quello che vediamo intorno a noi non fa che decadere e andarsene, tutto se ne va e anche noi, anch'io» (p. 184). Proprio nella capacità di avere a che fare con la noia, invece – pare suggerire il romanzo – sta la salvezza, o almeno la possibilità di resistere alla muta disperazione del quotidiano, di far sì che ne valga la pena, di vivere. Da un lato, infatti, «la chiave burocratica alla base di tutto è la capacità di avere a che fare con la noia. Di operare efficacemente in un ambiente che preclude tutto quanto è vitale e umano. Di respirare, per così dire, senz'aria. La chiave è la capacità, innata o acquisita, di trovare l'altra faccia della ripetizione meccanica, dell'inezia, dell'insignificante, del ripetitivo, dell'inutilmente complesso. Essere, in una parola, inannoiabile» (p. 566). Dall’altro, tale adattamento di sicuro alienante, è pure la possibilità per il tipo più autentico di eroismo. L’eroismo più puro che si possa immaginare, dirà infatti un professore gesuita docente di contabilità incontrato per caso dal protagonista, «siete voi, soli, nello spazio di lavoro che vi hanno assegnato. Il vero eroismo sono i minuti, le ore, le settimane, gli anni di un esercizio di probità e attenzione silenzioso, meticoloso, coscienzioso, senza nessuno che veda o acclami. Questo è il mondo» (p. 299). In una parola, si tratta qui della pura dedizione, della capacità di amare la quale attiene al genere più importante di libertà che – affermerà Wallace nel suo discorso ai neolaureati del Kenyon College del 2005 - «richiede attenzione e consapevolezza e disciplina, e di essere veramente capaci di interessarsi ad altre persone e a sacrificarsi per loro più e più volte ogni giorno in una miriade di modi insignificani e poco attraenti. (…) L’alternativa è l’incoscienza, la configurazione di base, la corsa al successo, il senso costante e lancinante di aver avuto, e perso, qualcosa di infinito». Sembra di sentire un’eco lontana, che ad alcuni suonerà familiare: «Chi è fedele nel poco, sarà fedele anche nel molto».
In tutto 710 pagine dalla prosa sontuosa e non semplice, screziate del tipo di ironia più autorevole, e cioè quella malinconica. Einaudi editore. Costa più o meno sui 15 euro. Ordinandolo on line anche meno.