di Antonio Averaimo e Mariangela Parisi
Eventi come l’eruzione del Vesuvio vanno studiati per bene.
E l’emergenza va programmata come si deve, con studi seri di fattibilità. «Invece si ha sempre l’impressione che in Italia tutto ciò non venga fatto per la miopia della politica. E alla fine ci ritroviamo sempre in situazioni come quelle dell’Aquila o di Amatrice». Flavio Dobran, ingegnere termo–fluidodinamico, dall’Italia è andato via da molti anni per insegnare nelle università americane. Ma da New York, dove vive, non ha smesso di tenere d’occhio il gigante che cominciò a studiare negli anni ’80. Con sua moglie, che è nata sotto al vulcano, a Portici, ha dato vita al Gves. Il mese scorso, dal 26 al 30, ha portato a Napoli 50 scienziati da ogni parte del mondo per discutere di «Resilienza e sostenibilità delle città in ambienti pericolosi».
Professore Dobran, che ne pensa del Piano di emergenza per il Vesuvio predisposto dalla Protezione civile? È un piano in grado di assicurare l’incolumità e la corretta evacuazione quando il vulcano erutterà?
Mi faccia fare una premessa. Ho cominciato a studiare il Vesuvio negli anni ’80. Da allora continuo a dire incessantemente che non è possibile preparare un piano serio senza che siano portati avanti preventivamente dei validi studi di fattibilità sugli scenari eruttivi possibili. Questa è la più grande lacuna del piano vigente. Purtroppo in tutti questi anni le istituzioni sono rimaste sempre sorde a questa necessità. Non può esistere un piano senza un serio studio preliminare, lo ribadisco. Poi tutto parte da un equivoco…
Quale?
Esistono migliaia di persone, sotto al Vesuvio e in tante altre città del mondo, che vogliono vivere vicino a un vulcano. È un loro sacrosanto diritto. Si calcola che presto il 70% della popolazione vivrà nelle città. Molte di queste sono costruite sotto a un vulcano. Il pilastro del piano di emergenza vigente è un’evacuazione di massa. Questo significherebbe non solo salvezza per gli abitanti del posto, ma anche distruzione della cultura napoletana. Il compito della comunità scientifica e delle istituzioni è invece consentire a questa gente di vivere qui in santa pace. Per farlo, bisogna dare risposte su due fronti: quello della resilienza e quello della sostenibilità.
Cioè?
Bisogna predisporre anzitutto uno studio transdisciplinare su questi due aspetti fondamentali. Possibile che tutti vadano via? Sembra quasi che ci sia un progetto mascherato di mandar via tutti e così sia. Invece sarebbe molto più logico sgomberare temporaneamente, per la durata dell’emergenza, alcune aree intorno al vulcano. Ma per fare ciò è necessario prevedere tutti i possibili scenari. Cosa che il piano di emergenza non fa, ci sembra di capire. Innanzitutto il piano si basa su una previsione di eruzione di piccola o media scala. Invece bisogna pensare anche al peggio, ahimè.
Lei cosa propone invece?
Bisogna riorganizzare il territorio: è questo che va fatto e che nessuno vuole fare. Perché non lo capiscono i politici? Nel pentalogo che ho predisposto si prevede: collocamento di una parte della popolazione a rischio in insediamenti temporanei, vicini al loro territorio di origine, fino al termine della crisi vulcanica; individuazione di un nucleo di esclusione nel quale siano proibiti tutti gli insediamenti futuri; creazione di una cintura di resilienza in cui inserire gran parte della popolazione, nella quale tutte le costruzioni siano in grado di fronteggiare i massimi verosimili terremoti ed eruzioni; al di là di questa cintura si dovrebbero individuare delle aree di sostenibilità per consentire gli insediamenti temporanei degli abitanti della zona di resilienza.
Un po’ difficile da attuare…
Sì, ma è l’unica strada per non trovarci in situazioni come quelle dell’Aquila o di Amatrice. Bisogna prevenire, ma ciò non viene fatto. A questo punto ci resta solo pregare che non accada nulla.
Qui l'intero servizio dedicato al "Rischio Vesuvio"