Una teologia poetica della risurrezione

Dante, Salomone e la risurrezione dei corpi nell'intuizione di Francesco Pacia

di Francesco Pacia

 

Mi è capitato di partecipare a un ambizioso convegno presso l’Università di Salerno: “Poesia teologica e teologia poetica: testi e contesti dall’antichità all’umanesimo”: 63 (sic!) relazioni per un volo quasi da Icaro con le piume alate dei versi e la cera fissante dei teologi nella luce abbagliante del Mistero. Quasi piccolo gheriglio di noce - lo ammetto - ho colto poco, ma alla fine quasi dei quattro giorni, durante una relazione su Dante… un’intuizione, come quelle che solo la poesia riesce a dare, sinottica, esemplificativa; un’immagine, che solo un linguaggio creativo - poesia ha a che fare col “fare” - riesce a tradurre. Ho pensato di condividerla con voi...

La relazione era sul canto XIV del Paradiso. A metà tra il cielo del Sole e quello di Marte… tra il candido fulgore degli spiriti sapienti e l’ignea schiera degli spiriti militanti, Dante, attanagliato dai soliti dubbi, che accompagnano ogni tappa del suo viaggio - mai che si godesse solo lo spettacolo! -, spinto dalla solita preveniente Beatrice, si intrattiene con gli “inquilini” del quarto cielo sullo splendore del corpo risorto: grande è la luce che emanano ora i beati senza corpo, ma con il corpo quello splendore aumenterà?

Gli occhi, allora anche corporei, reggeranno cotanta luce? Ovviamente è un espediente narrativo per trattare di risurrezione della carne, uno degli elementi centrali della fede cristiana. E per farlo viene scomodato - secondo la maggior parte dei critici - il sapiente dei sapienti, Salomone: rivestiti - egli dice - della gloriosa e santa carne risorta, la nostra persona / più grata fia per essere tutta quanta (vv. 44-45).

La perfezione della natura umana portata così alla sua pienezza accrescerà la grazia e con la grazia la visione di Dio, con questa aumenterà l’ardore di carità e con la carità la luce che ne è emanazione: così la festa di paradiso (vv. 37-38) sarà un tripudio di luce e i corpi, come incandescenti carboni, diverranno fontane di luce.

Salomone finisce di parlare e tutti gli spiriti sapienti, che lo avevano ascoltato, dicono: “Amen!” a ben mostrar disio de’ corpi morti (v. 63): i beati sono presi dal desiderio del loro corpo! Certo, è perché così raggiungeranno la pienezza della loro natura, saranno pienamente persona… ma poi Dante inserisce un dettaglio in tre versi, che vestono di carne e calore la teologia:

forse non pur per loro, ma per le mamme

per li padri e per li altri che fuor cari

anzi che fosser sempiterne fiamme. (vv. 64-66)

I beati non desiderano il corpo solo per loro, ma anche per le loro mamme, i papà e tutti quelli che erano cari prima che diventassero fiamme. Cioè, immaginatevi un attimo la scena!

Salomone ha parlato della risurrezione e questi spiriti – che sono i sapienti, i geni dei loro tempi – si mettono a pensare alle mamme, ai papà, ai fratelli: ve lo immaginate un Tommaso, che pensa ai severi conti d’Aquino, o Agostino che pensa a Monica, a Patrizio o al figlioletto Adeodato? E l’averroista Sigieri, dal nome strano, che vi siete sempre figurati austero e impassibile, ce lo vedete? Ve li immaginate in un momento solennissimo pensare di riavere un corpo per poter riabbracciare familiari, amici, fratelli, genitori perché da secoli e millenni sono solo (sic!) sempiterne fiamme, senza corpo e quindi senza contatto, senza tocco, senza la materializzazione concreta di quell’amore che finché è solo luce, intelletto, spirito, è sempre incompleto, puro sì, ma astratto?

Pochi endecasillabi, eppure capaci di una profondità tale che solo la poesia può avere… poesia bella, alata, che mette la carne, gli affetti alla teologia, che con un dettaglio rende anche l’escatologia 'più umana' e rende ancora più bella questa nostra fede in un Dio incarnato e risorto, dal corpo donato e spezzato, questa nostra fede che non è nemica del corpo, come molti a torto credono, ma che fa del corpo il luogo teologico dell’amore.

 

 




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